Trattato di Maastricht, è ora di modificarlo?
Il Trattato di Maastricht, firmato il 7 febbraio 1992 nell’omonima città olandese ed entrato in vigore il 1° novembre 1993, è uno degli accordi più importanti nella storia dell’Unione europea (UE). Infatti, quel trattato riformò profondamente la Comunità europea (CE) attraverso l’istituzione di un’unione politica e il rafforzamento dell’integrazione economica con la creazione dell’Unione economica e monetaria (UEM).
Il Trattato di Maastricht sancì anche la nascita del cosiddetto secondo pilastro, quello della politica estera e di sicurezza comune, ed il terzo pilastro, quello della cooperazione nell’ambito della giustizia e affari interni. Il Parlamento europeo vide accrescere i suoi poteri. Il Trattato di Maastricht è, però, ricordato soprattutto per aver sancito il famoso 3% del rapporto deficit/PIL (prodotto interno lordo).
Eppure, resta spesso in secondo piano l’aspetto geopolitico del Trattato di Maastricht, che consentì un nuovo equilibrio in Europa dopo la fine della guerra fredda, con l’ingresso della Germania unificata nell’UE. Con l’UEM, la Germania rinunciava alla sua moneta, il marco, e tranquillizzava la Francia riguardo alla volontà di potenza del Paese, che sarebbe così stata canalizzata nella gestione sovranazionale della moneta. L’abbandono del marco convinse la Francia a cedere alla Germania il ruolo propulsore nella progettazione dell’UEM, basata su indici macroeconomici che rendessero la nuova moneta, l’euro, solido come lo ero stato il marco tedesco. Per l’Italia, invece, l’UEM fu un’occasione per ridefinire le proprie politiche economiche, che fino ad allora erano state fin troppo allegre, imponendosi un vincolo esterno con l’UEM.
Il Trattato di Maastricht affidò la politica monetaria alla Banca Centrale Europea (BCE), che agisce come un’istituzione sovranazionale che applica le regole previste dai trattati, separandola dalla politica economica, che resta soggetta al coordinamento intergovernativo, cioè in mano agli Stati membri. Però, la crisi economica degli ultimi dieci anni ha palesato le criticità di tale impalcatura, laddove le regole fiscali dell’UEM hanno manifestato la loro inadeguatezza a fronteggiare i diversi problemi degli Stati membri che hanno avuto, per l’appunto, risposte di politica economica nazionali.
È utile richiamare uno studio che fece Luigi Marattin, docente di Economia Politica presso il Dipartimento di Scienze Economiche dell’Università di Bologna, nel 2015, nel quale si sottolineava che i parametri di Maastricht furono calcolati alla fine del 1991 sulla base dei dati macroeconomici di allora (come debiti pubblici, inflazione, tassi di crescita dell’economia) e, aggiornando quel sistema con i dati attuali, egli calcolò che la fatidica soglia del deficit consentito sarebbe salita fino a circa il 4% del PIL.
Senza voler entrare nel merito del calcolo, vale la pena ricordare che la materia è complessa ma che egli, come molti altri economisti e uomini politici, immaginava una riforma delle regole fiscali che, oltre all’aggiornamento dei criteri, prevedesse una maggiore severità verso l’obiettivo di riduzione del rapporto debito/PIL e l’emissione di titoli del debito pubblico a livello europeo sulla base di quanto già avviene nel Fondo Salva Stati. Tutto questo dovrebbe essere accompagnato da riforme strutturali che rilancino la competitività a livello europeo ed il completamento del mercato unico. A tal fine, dovrebbe essere stabilita un’unione fiscale, cosicché non vi siano squilibri tra le forme di tassazione tra i vari Stati membri.
Paolo Savona, ministro per le Politiche europee, ha recentemente dichiarato che «dopo 30 anni le regole vanno cambiate». Certamente l’UE e l’euro necessitano di alcune riforme, verosimilmente la loro discussione potrebbe entrare nel dibattito tra i partiti in vista delle elezioni europee ma, probabilmente, passerebbero comunque in secondo piano rispetto a temi che coinvolgono in maniera più diretta e passionale l’opinione pubblica. Le regole vanno cambiate e, direbbe qualcuno, se non ora quando?