Trascendenza dall’io al noi

Autobiografismo, filosofia e teologia. Le Confessioni di Agostino sono tutto questo e molto altro. Sono anche un caso letterario longevo grazie a Petrarca
S. Agostino nello Studio

La speranza di far carriera doveva essere la sua unica compagna di viaggio in Italia. E invece nel 388, dopo qualche anno, torna in Africa in veste di cristiano convinto. Agostino era cambiato: era un uomo nuovo, aveva  dato una svolta radicale alla propria vita. E quel processo affascinante ed unico era un percorso non solo dell'io, ma il modo in cui Dio aveva operato per condurre un’anima alla verità.

Nascono così Le Confessioni che Agostino scrive nove anni più tardi, quando ormai è vescovo: «Il primo testo della letteratura moderna», ha dichiarato il filosofo veneziano Massimo Cacciari. Tra l’abisso di sé e gli infiniti dell’anima, Agostino, maestro del pensiero, ha tracciato in questo volume tra le pagine più belle di filosofia e teologia dell’Occidente. Anche Petrarca ne rimase affascinato e ne fa il suo interlocutore nel Secretum.

Maestro del pensiero di ogni tempo prendiamo, allora, dal libro quarto de Le Confessioni, edito da Città Nuova sia come Grande Opera che per la collana Minima, una magistrale lezione su come il divino entra nell'esperienza dell'io e dell'amicizia. Un classico intramontabile. 


«Il tempo non si ferma né passa invano sui nostri sentimenti, anzi agisce straordinariamente sul nostro animo. Arrivava e passava giorno dopo giorno, e, venendo e passando, mi faceva balenare nuove speranze, altri ricordi, e poco alla volta risuscitava in me l’interesse per i precedenti piaceri, che così andavano sostituendosi al dolore. Ma a sostituirvisi, se non erano proprio altri dolori, certo erano motivi di nuovi dolori. Del resto, come mai quella sofferenza era potuta penetrare così facilmente e così profondamente in me, se non perché avevo disperso la mia anima nella sabbia amando un essere mortale come se fosse immortale? 

«Soprattutto mi dava conforto e sollievo l’amicizia di altri; insieme con essi ero attratto da ciò che mi attraeva in vece tua, e cioè grosse fandonie e complicate invenzioni, al cui contatto ingannatore si corrompeva la nostra mente, solleticata dal prurito di ascoltare novità. Tutti quegl’inganni per me non morivano, anche se moriva uno degli amici. 

«E poi c’erano altre cose che avvincevano il mio animo: le conversazioni e le risate insieme, lo scambio di affettuose gentilezze, la lettura in comune di libri piacevoli, fare insieme cose ora insignificanti ora importanti, contrasti passeggeri, senza rancore, come succede ad ogni uomo anche con se stesso, e con quei contrasti, peraltro così rari, rendere più gustosa l’abituale concordanza di vedute; insegnarci cose nuove a vicenda, sentire acutamente la nostalgia per gli assenti e accoglierli con gioia al loro ritorno: questi e altri simili segni, sgorganti da cuori che amano e si sentono riamati, ed espressi col contegno, con le parole, con lo sguardo e con mille graditissimi gesti, fondono insieme come fiamma gli animi e di molti ne fanno uno solo». 

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