Transizioni arabe
Decifrare ciò che sta avvenendo in Africa settentrionale e nel Vicino Oriente. Timori e speranze, per le prossime tornate elettorali.
Si capirà meglio come stanno le cose dopo le prossime elezioni che nell’arco di un anno si svolgeranno in Tunisia, Egitto, Yemen, Bahrein e Giordania, e dopo che si diraderà la nebbia delle contestazioni al siriano Assad e della guerra di Libia. Con le incognite delle contestazioni sotterranee in Arabia Saudita e in Algeria, e in misura minore, in Marocco, Qatar ed Emirati. E senza dimenticare il timore che sfugga di mano il conflitto israelo-palestinese e che si rompa l’equilibrio libanese. Più che di “primavera araba” è più prudente parlare di “transizioni arabe”, sperando che la bella stagione arrivi.
È arduo spiegare cosa sia successo e stia succedendo. Ancor più complesso è tracciare un primo bilancio di una grande speranza che ancora non ha mantenuto le sue promesse. Vengono infatti progressivamente alla luce le manipolazioni dei fenomeni di piazza (vedi ad esempio il problema copto in Egitto), che pure agli inizi avevano, almeno in Tunisia ed Egitto, una valenza positiva. Certo è che lo status quo s’è rotto, mentre un nuovo equilibrio ancora non s’è delineato. I regimi politico-religiosi della regione, teocratici e islamici, con l’Islam come religione di Stato o con un leader comunque di religione musulmana per volere costituzionale, vedono uno dopo l’altro messa in dubbio la loro fragile stabilità. Mentre trovano acqua nella quale sguazzare fondamentalismo, antisemitismo, esodo, guerre locali, conflitti inter-islamici.
Infine, c’è da considerare che modernità e globalizzazione hanno d’improvviso reso più evidente lo scarto tra un Occidente tecnologicamente avanzato e un Medio Oriente arabo frenato nello sviluppo da sistemi politici totalitari.
Le popolazioni che si sono ribellate reclamano maggiore libertà e una via araba alla democrazia. Vogliono che siano combattuti la disoccupazione, la corruzione e il sottosviluppo economico. Ma quali popolazioni? Cerchiamo di capirlo.
I 22 Paesi arabi contano attualmente 340 milioni d’abitanti, che vivono, salvo le eccezioni di alcuni Stati della penisola araba, con standard di vita inferiori di tre o quattro volte rispetto all’Europa. Le condizioni sanitarie, alimentari, di approvvigionamento idrico ed elettrico ed educative stanno peggiorando.
Tutto ciò a fronte, paradossalmente, di straordinarie ricchezze naturali: basti pensare che i Paesi del Golfo persico possiedono il 45 per cento delle riserve mondiali di petrolio e il 40 di gas naturale. Mentre i Paesi dell’Africa del Nord contano su 70 miliardi di barili di petrolio di riserva (la Libia da sola 44 miliardi di barili di petrolio e 50 triliardi di metri cubi di gas). I Paesi arabi del Vicino Oriente, da parte loro, hanno 180 miliardi di barili di riserva di petrolio e 55 trilioni di metri cubi di gas naturale (l’Iraq da solo 150 miliardi di barili di petrolio e 50 trilioni di metri cubi di gas naturale). Senza parlare di minerali e metalli preziosi.
In questo paradossale contesto di inusitate ricchezze e diffuse povertà, la longa manus del neo-colonialismo si fa strada, disegnando scenari inquietanti. Il patriarca maronita del Libano, Béchara Pierre Raï, ha recentemente affermato: «È urgente che le istanze internazionali facciano fallire il progetto del cosiddetto “nuovo Medio Oriente” lanciato dal 2006 da certe potenze internazionali, che vorrebbe ridisegnare la carta geografica del Medio Oriente. Si tratterebbe di creare un campo di caos per frammentare il mondo arabo in mini-Stati etnici e confessionali deboli, e per facilitare così l’egemonia straniera sulle economie dei territori arabi. Questa situazione creerebbe una corsa agli armamenti e svuoterebbe le capacità finanziarie dei Paesi petroliferi».
A rendere plausibile questi scenari, c’è un ulteriore elemento di cui tener conto: nei fatti le rivoluzioni in corso, contrariamente al solito, non sono arrivate sostenute da un pensiero e da un programma ben preciso, appoggiate da una classe dirigente più o meno preparata, ma sono state di tipo popolare, mosse soprattutto da giovani inesperti, impreparati nel campo politico ma con sincere esigenze e aspettative. Niente colpi di Stato, com’era nelle tradizioni locali.
C’è un’altra domanda che qui in Europa è assai frequente: ma queste rivoluzioni rappresentano una speranza o un pericolo per le minoranze cristiane? Nei fatti esse sarebbero felici di godere di una libertà maggiore. Ma, avendo a cuore la loro sopravvivenza, sono nel contempo seriamente preoccupate e timorose che queste rivolte non portino a nient’altro che a creare altri dittatori, magari più fini e subdoli dei passati. I cristiani temono l’instaurarsi di Stati religiosi retti dalla sharia, la legge islamica, nel caso in cui i fondamentalisti – wahhabiti in particolare – vincano le prossime elezioni.
Questo non significa che i cristiani d’Oriente non gradiscano la vicinanza dei musulmani, tutt’altro: si sentono parte integrante di queste terre e civiltà e vogliono rimanere tali; ma non cercano solo la libertà di espressione e culto, di cui ora godono generalmente in questi Paesi –Arabia Saudita a parte –, ma vogliono anche essere cittadini con tutti i diritti, con la possibilità ad esempio di accedere ai posti di governo e di non continuare a essere considerati di seconda categoria.
Ci vuole tempo per una vera transizione alla democrazia, o perlomeno alla giustizia e alla pace. L’Oriente arabo rifiuta la democrazia dell’Occidente perché vuole trovare la sua propria democrazia. È questa la sfida aperta. È questo il campo in cui il mondo intero, e l’Europa in particolare, dovrebbe oggi accompagnare il mondo arabo. Con atteggiamenti di cooperazione e di attenzione, senza più sfruttamenti e senza il rombo delle armi.
Michele Zanzucchi
(con la collaborazione dei nostri corrispondenti in Algeria, Tunisia, Egitto, Siria, Giordania, Libano, Turchia e Israele)
Transizione nel Mediterraneo
di Vincenzo Buonomo
Cosa c’è alla base dei sommovimenti sociali dei Paesi arabi?
La transizione araba sta mostrando la sua vera natura, quella che sin dal primo momento è riecheggiata nelle piazze di Tunisi e del Cairo o in Yemen e Siria: «Il popolo vuole la caduta del regime». Obiettivo che è stato raggiunto per la Libia (o per le sue risorse?) solo attraverso l’uso della forza, mentre in altri Paesi la caduta dei regimi resta affidata al controllo dei militari. Un vero rebus dal punto di vista geopolitico, in cui trova spazio l’interrogativo: siamo di fronte a mutamenti politici o a rivoluzioni socio-culturali? Una domanda necessaria per leggere eventi che hanno risvegliato non solo le piazze, ma anche sentimenti religiosi, ansie culturali, rivendicazioni di diritti, come pure rivalità storiche.
Se la geografia e la storia ci dicono che siamo nella culla delle civiltà, nel crocevia delle religioni monoteistiche, la lettura dei
fatti evidenzia diversi modelli di società che quasi sempre hanno come referenti tribù, clan, confessioni religiose, ovvero un sistema di identità in cui è forte l’alternativa tra inclusione ed esclusione, dove è difficile indicare “principi generali”. Sul versante politico la stabilità è spesso confusa con l’immobilismo, per cui il riferimento ai rais e ai sistemi di alleanze locali o nazionali viene prima delle regole condivise; mentre a livello istituzionale sono evidenti le tensioni tra il modello tradizionale e la spinta a una visione occidentale.
Vi è poi una caratteristica che spesso sfugge: la cultura politico-istituzionale dell’area è disomogenea quanto l’area stessa: 22 Stati (tra cui Israele, troppe volte dimenticato dalle analisi sulla primavera araba) e i Territori palestinesi; ma soprattutto la grande divisione tra il Golfo, il Mashrik/Mashreq a est e il Maghreb a ovest, con differenze culturali anche quanto all’elemento religioso, con lo stesso Islam distribuito fra sunniti, sciiti, drusi e alauiti.
Tra la popolazione – oltre 350 milioni (circa 20 milioni sono cristiani) e un’età media che si attesta sui 26 anni – è in evidente aumento il livello di alfabetizzazione e formazione, anche se resta un indice di sviluppo umano molto diverso che oscilla tra le ricchezze del Golfo e il limitato sviluppo del Nord Africa. Oggi sulla transizione pesa il conflitto per le risorse (acqua, petrolio, gas, traffici commerciali) che proietta ancora una volta l’area mediorientale come porta dell’Oriente verso il Mediterraneo nonostante la destabilizzazione determinata dai conflitti. Ma sulla transizione pesa anche l’esigenza di uno sviluppo e una cooperazione efficaci, di una prosperità condivisa, di un impegno comune per rispondere all’esigenza dello Stato di diritto, della democrazia, dei diritti umani, del buon governo, della sostenibilità.
Quanto alla dimensione internazionale, la concezione che fa dell’Islam un modello (dār al Islām) rispetto alle altre realtà (dār al-Harb), coesiste con organizzazioni regionali quali la Lega Araba (21 membri), l’Organizzazione della Conferenza islamica (56 membri), il Consiglio cooperazione del Golfo. Quest’ultimo ha reagito alla transizione in atto inglobando tra i suoi membri anche la Giordania e il Marocco che dal Golfo sono distanti.
Non manca, poi, il risveglio dell’identità araba storica a fianco di un panarabismo moderno in cui penetrano gruppi ed espressioni fondamentaliste (salafiti, wahhabiti, fratelli musulmani), la marcata identità delle minoranze etniche (berberi, tuareg, saharawi) o, in particolare, la richiesta dei non musulmani di uno spazio di libertà, ben consapevoli dell’uso strumentale della religione o della condizione di limitato esercizio del loro culto con l’abbandono conseguente di quelle terre.
Peraltro, la transizione mostra come l’ansia dei gruppi minoritari sia un presupposto imprescindibile di fronte alla tendenza che vuole definire le minoranze in ragione della protezione, delle sfere d’influenza e di una nuova colonizzazione, abbandonando definitivamente il sistema dei cosiddetti “statuti personali” che consente ai membri delle differenti comunità religiose di seguire le proprie regole in materia matrimoniale, di filiazione e persino di proprietà. Un sistema attraverso cui è garantita una certa tutela dei diritti umani, anche se spesso si tratta solo di formale adesione agli standard universali.
Come uscirne? Gli appuntamenti elettorali e la maturazione sociale e culturale sono altrettanti percorsi seguiti con attenzione. Ma richiedono una reale coesione sociale, una comunione di intenti alternativa alla semplice coesistenza: uno sforzo a cui possono concorrere anche apporti esterni. Accantonate le tante speranze della cooperazione euro-mediterranea, nate nell’ormai lontano 1995 con la Conferenza di Barcellona, da più parti si invoca una diversa reciprocità di rapporti: culturali, politici, giuridici, economici, religiosi, sui diritti umani, coscienti che solo un concreto dialogo possa spingere i cambiamenti politici e istituzionali, e la cooperazione. Si tratta di superare tentazioni di contrapposizione, antiche e nuove logiche di schieramento, per stabilire relazioni in funzione del bene di tutti. Una comunione di valori ed esperienze condivise in cui il ruolo delle religioni sia capace di realizzare sul possibile terreno comune un concreto progetto di società.
Vincenzo Buonomo
Il caso tunisino
Il 18 dicembre 2010 un giovane tunisino di 27 anni, Mohamed Bouazizi, laureato e disoccupato, si immolava con il fuoco per esprimere la sua rabbia contro l’autorità. Il tentativo di suicidio non è rimasto un caso isolato, ma ha preso dimensioni internazionali. Secondo mons. Laham, arcivescovo latino a Tunisi, il terreno era preparato per un’insurrezione fin dai tempi del presidente Bourguiba (1957-1987), quando le donne avevano ricevuto gli stessi diritti degli uomini, era stata abolita la poligamia e legalizzato l’aborto. Anche se la Tunisia si considera araba e ha una lunga tradizione islamica, i suoi abitanti non sono certo fanatici e vogliono democrazia. Dopo la caduta del regime di Ben Ali, si è voluto eliminare tutto ciò che veniva dal vecchio partito, e ora si aspettano le elezioni di ottobre.
Adnane Mokrani, nostro collaboratore e professore di islamistica in diverse università romane, è presidente del comitato organizzatore delle votazioni in Italia: «È una corsa contro il tempo. Ma non ci sono grossi problemi e speriamo che dal 20 al 22 ottobre tutto vada bene, nei circa 80 seggi elettorali che apriremo in Italia». Mokrani spiega la grande sfida che si apre nel suo Paese: «Si sta svolgendo una grande campagna d’informazione e formazione, per insegnare alla società civile e ai membri dei seggi elettorali come funziona una democrazia elettiva. Con l’appoggio dell’Unpd, saranno dispiegati osservatori internazionali e giornalisti, per garantire la trasparenza del voto».
Previsioni? «C’è un boom di liste indipendenti – in Tunisia 1700, in Italia 22 –, con un reale rischio di frammentazione. Difficile fare previsioni». Rischio fondamentalista? «I partiti hanno accettato le regole della democrazia. Forse una piccola minoranza, fuori dal gioco politico, potrebbe disturbare le operazioni di voto, ma non mi sembra una vera minaccia. Mi aspetto un reale passo avanti verso la democrazia, una vera legittimità e una reale trasformazione culturale del popolo».