Transizione ecologica e inquinamento Pfas, un caso aperto
La grave contaminazione della Terra dei fuochi in Campania e l’inquinamento dell’acqua in Veneto per la presenza dei Pfas nelle falde sotterranee sono solo alcuni esempi di un grave problema che l’Italia, come altri Paesi industrializzati, deve affrontare. Non si tratta solo dell’urgenza della bonifica dei territori ma del cambiamento radicale del modello di sviluppo che quel danno continua a provocare sulla vita e la salute delle popolazioni coinvolte e non solo.
In questi anni abbiamo assistito alla solita storia della mancanza di risorse pubbliche necessarie per bonificare anche i siti inquinati di interesse nazionale (Sin).
È, perciò, importante capire se la riscrittura in corso, da parte del governo Draghi, del Piano nazionale di ripresa e resilienza, deciderà o meno, sotto il titolo della “transizione ecologica”, di destinare consistenti investimenti per risolvere, come afferma Fabrizio Bianchi, autorevole esperto di epidemiologia ambientale del Cnr, «un problema ambientale, sanitario, economico e sociale, non solo per i milioni di persone che ci vivono e lavorano, ma per l’intero Paese.
Associazioni e movimenti attivi sui territori inquinati sanno che «non ci si può salvare da soli» e cercano di costruire alleanze e condivisioni tra esperienze diverse. Così la rete delle mamme No Pfas attive nel Veneto hanno promosso un collegamento tra Nord e Sud e iniziato a condividere il cammino con una realtà attiva da tempo in Piemonte, quella del comitato Stop Solvay che affronta la stessa tipologia di inquinamento connotato dalla presenza dei Pfas nell’acqua dovuta alle lavorazioni industriali. Con la sigla Pfas si intende «una famiglia di circa 4.000 composti distinti, assemblati combinando quantità specifiche di fluoro e carbonio e classificati in base alla lunghezza molecolare» che si sono rivelati, con evidenza scientifica, dannosi per l’ambiente e la salute delle persone.
Il caso piemontese di Spinetta Marengo (Alessandria) rappresenta un esempio tipico del conflitto improprio tra ambiente e lavoro, originato, in questo territorio, dalla presenza del polo chimico ex Montedison, rilevato dal 2002 dalla multinazionale belga Solvay.
Sulla vicenda abbiamo raccolto il parere di Lino Balza, storica voce del movimento ambientalista italiano, fondatore del “Movimento di lotta per la salute Maccacaro” (Giulio Alfredo Maccacaro,1924-1977, medico e scienziato fondatore di Medicina democratica).
A che punto si trova la questione dell’inquinamento Pfas a Spinetta Marengo? Che rapporto c’è tra la situazione in Piemonte e quella in Veneto?
La “bomba Pfas” di Spinetta Marengo allarma qualche anno prima di Trissino in Veneto, quando, nel 2008, da Alessandria ho documentato con esposti in magistratura, nonché tramite campagna nazionale sui rischi dei prodotti contenenti Pfas (esempio le pentole antiaderenti), i danni tossico cancerogeni dei Pfas (PFOA, C6O4, ADL) dello stabilimento Solvay (ex Montedison). Nel contempo ho denunciato l’inquinamento dei fiumi (da Bormida a Tanaro a Po) e l’avvelenamento, a mio parere nascosto dalla multinazionale belga, del sangue dei lavoratori spinettesi.
Con quali risultati?
Abbiamo avuto la cessazione del Pfoa, sostituito però dal C6O4 grazie alla autorizzazione AIA (Autorizzazione integrata ambientale) della Provincia.
Cosa rappresenta il caso veneto?
Il caso Pfas di Trissino esplode nel 2013 quando il rapporto – già del 2006 – dell’Autorità europea per la sicurezza alimentare (EFSA) costringe finalmente il Ministero dell’Ambiente italiano a commissionare un’indagine al Consiglio Nazionale delle Ricerche, che finalmente individua i livelli di PFAS nei fiumi veneti come i più allarmanti. È stato a questo punto che la locale Arpa è stata in grado di identificare l’impianto di Miteni di Trissino (ex Marzotto, ex Enichem Mitsubishi) come fonte delle emissioni di Pfas dal 1965. La loro indagine di diffusa contaminazione da Pfas nel Nord Italia, pubblicata nel 2013, è stata la prima rivelazione pubblica istituzionale, con un imperdonabile ritardo rispetto alle nostre denunce del 2008.
Che peso ha avuto la mobilitazione civile in Veneto?
In Veneto le autorità locali hanno cercato di recuperare i ritardi mentre il Piemonte continua ad ignorare i nostri ripetuti esposti in magistratura. Diciamolo chiaramente: la presenza di Pfas nell’acqua potabile veneta non sarebbe mai arrivata all’attenzione dell’opinione pubblica – e forse nemmeno di un tribunale di giustizia – se non fosse stato per la pressante mobilitazione dei residenti locali. Senza di loro, le autorità non sarebbero corse a provvedimenti purtroppo fuori tempo massimo (nuovi filtri negli acquedotti, barriere di contenimento, drenaggi) ma anche a imporre limiti inferiori alla media alla presenza di Pfas nell’acqua potabile, innescando un litigio con le autorità nazionali che all’epoca non avevano neppure registrato la questione. Soprattutto in Veneto, a scandalosa differenza del Piemonte, sotto pressione delle “Mamme No Pfas” l’ente sanitario avvia piani di sorveglianza sanitaria per i residenti, drammatici: anche i bambini hanno quantità di Pfoa e C604 nel sangue fino a dieci, venti, cento volte oltre qualunque limite.
Assieme ai comitati del Veneto avete iniziato ad ottobre 2020 una interlocuzione con il ministero per l’Ambiente prima che questo ministero si trasformasse, con Draghi, in quello della Transizione ecologica. Cosa vi aspettate ora?
Le pressioni, a suon di manifestazioni popolari, delle “Mamme No Pfas”, a cui si affianca il “Comitato Stop Solvay” alessandrino, hanno investito la politica: dalla Commissione interparlamentare ecomafie al ministro dell’Ambiente, Sergio Costa, che si è impegnato per “Limiti Zero Pfas” nell’acqua senza riuscire a mantenere tale promessa. Dal cosiddetto Ministero della transizione ecologica c’è, a mio parere, ben poco da sperare avendo il M5S ulteriormente perso il suo già scarso peso politico. Non prevedo proprio che “Limiti Zero Pfas” sarà presente nel Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) che l’Italia deve presentare alla Commissione europea nell’ambito del Next Generation EU.
Sperando che non sia così, come contate di muovervi ancora?
Restano i tribunali. Il processo contro Miteni davanti al tribunale di Vicenza è alle fasi preliminari. Il tribunale di Alessandria per dodici anni ha ignorato sistematicamente i nostri esposti, e anche quando (2008) avvia un processo esclude il PFOA dal capo di imputazione perché l’ARPA non gli ha fornito le analisi. Ora le indagini idrogeologiche (falde e acquedotti contaminati) ed epidemiologiche (tumori record) hanno confermato gli esposti, e nel 2021 finalmente la Procura apre, sulla base della sentenza di Cassazione, un processo bis per disastro ambientale e omessa bonifica nei confronti di Solvay.
Sono novità significative…
Certo. La Procura di fatto ha scoperchiato lo scandalo della autorizzazione AIA di nuovo rilasciata lo scorso anno dalla Provincia per il Pfas C6O4, più micidiale dello stesso PFOA. Di nuovo, la nostra manifestazione di sabato 13 marzo ad Alessandria, chiede il rigetto dell’AIA e la eliminazione totale del cancerogeno dalle produzioni di Spinetta Marengo.
Cosa temete nonostante l’azione della magistratura?
È ovvio chiedersi: cosa farà il colosso chimico belga? Un esempio che ci preoccupa viene da quanto avvenuto in Veneto: qui se Miteni, in coincidenza col nostro esposto del 2008, poté cessare il PFOA per il C6O4 andando avanti per altri dieci anni, altrettanto può fare Solvay mantenendo il C6O4? Miteni nel 2009 vendette l’impianto per la somma simbolica di 1 euro all’ International Chemical Investors Group (ICIG), un fondo di investimento con sede in Lussemburgo: continuò cioè a produrre Pfas fino a quando garantiva buoni profitti, senza spendere un centesimo per proteggere la popolazione dalle conseguenze della produzione. Poi, man mano che le normative sono diventate sempre più esigenti, e avendo spremuto tutti i possibili ritorni dall’impianto, lo ha lasciato cadere, scaricando i costi di bonifica sulla comunità.
Vedete delle mosse simili in Piemonte?
Il “Movimento di lotta per la salute Maccacaro” ha appena rivelato una evenienza allarmante per lo stabilimento di Spinetta Marengo: lo scorporo in una nuova società, una legal entity scollegata dalla casa madre Solvay, una struttura legale separata, controllata dalla capogruppo, in pratica un’altra società pronta ad “assumersi” (si fa per dire) le responsabilità degli effetti di un secolo di inquinamenti e morti. Sarebbe la ripetizione dell’operazione Miteni del passato e, per il presente, di quella appena avvenuta per lo stabilimento Solvay di Rosignano in provincia di Livorno.
Spremere fino in fondo il limone è la logica tossica del profitto; disprezzo per la sicurezza dei lavoratori e dei cittadini, sacrificio del benessere collettivo all’altare del guadagno immediato e massimizzato.