Tracce di un dialogo alla fine del mondo, o forse al suo inizio
Serge Latouche è netto nella sua analisi. Dalla crisi non se esce con un «capitalismo temperato» o «dal volto umano» per usare alcune espressioni comuni. L’esito annunciato del sistema attuale è quello dell’autodistruzione, perché chiede una crescita infinita di produzione e di consumo che non sopporta alcun limite. Si tratta di una vera e propria religione che determina non solo la vita concreta di tutti, ma plasma l’immaginario collettivo. Si comprende perciò perché Latouche ha usato, ormai da parecchi anni, lo slogan «decrescita», che suona come una bestemmia per gli economisti e non solo. Andrebbe inteso come «acrescita» nello stesso senso di «ateismo», come rifiuto di questa divinità che può tollerare mille altri culti purché non mettano in dubbio il suo dominio reale.
In definitiva la questione emersa nell’incontro con il pensatore bretone al Polo Lionello Bonfanti è servita a porre in evidenza una domanda che dovrebbe stare al centro dell’approfondimento di chi propone l’economia solidale e civile: nonostante gli sforzi generosi e le migliori intenzioni si rimane sempre subalterni alla «mega macchina», come la chiama Latouche, che distrugge vite umane e ambiente? Solo un complemento gradevole come lo è il limoncello alla fine del pasto, secondo l’immagine suggerita da Luigino Bruni? Oppure è possibile distinguere il mercato dal capitalismo?
Anche chi si pone come osservatore esterno non può non cogliere nel movimento per un’economia di comunione la priorità di non confinare le relazioni di gratuità fuori dal lavoro, dalla produzione e dallo scambio di carattere economico. Come a dire che non c’è un’età dell’oro cui ritornare o l’attesa di un mondo futuro. Esiste, ad esempio, la splendida libreria L’Arcobaleno che accoglie un dibattito che ha attirato oltre trecento persone. A cominciare da come si dispongono i libri, dal saper vedere le persone al di là del ruolo, allo spazio offerto alla convivialità, si comprende perché quelle persone, strette tra fatture e scadenze, siano disponibili a condividere anche i frutti del proprio lavoro. Sono esistenze che, senza una formalità esterna, gridano la resistenza al dominio del profitto. A dare più di quanto ricevono, a considerare il ricevere come il dare, senza altezzosità e senza vergogna.
Dopo secoli di propaganda nella fede della «mano invisibile del mercato», quella cioè che dovrebbe trasformare l’avidità personale in ricchezza collettiva, si può trovare una traccia di agire economico che non sia asservito al principio dell’accumulazione, senza per questo uscire dalla vita ordinaria? La domanda è troppo seria per non trovare seguito in un dialogo che ostinatamente Bruni e gli altri hanno mantenuto con Latouche, dopo che questi ha giudicato la proposta di EdC solo una forma ammodernata di paternalismo. Già il fatto di non trovare la chiusura integralista di chi basta a sé stesso, dovrebbe far sorgere qualche dubbio su una realtà anomala, nata dalla contemplazione di una diseguaglianza dolorosa come quella delle favela brasiliane, e che non può, quindi, accontentarsi di fare da copertura etica a prassi di oppressione e sfruttamento. Perché il momento attuale è davvero sul crinale della storia. La vicinissima Grecia è sempre un passo dal default e i continui prestiti che riceve per pagare i suoi creditori impongono la svendita dei beni e la povertà crescente nel popolo.
Latouche potrebbe dire di aver previsto tutto, molto prima del fasto dei Giochi olimpici del 2004, e altri scenari sono fin troppo semplici da disegnare. Ad esempio la migrazione di milioni di persone per cause ambientali. Se poche migliaia in fuga dal Nord Africa hanno mostrato l’impreparazione del fronte europeo, cosa accadrà con questa inesorabile pressione? Si risponderà con la legge marziale e i campi di prigionia? La guerra come esito naturale di una crisi economica crescente non è affatto esclusa ormai da molti osservatori.
Nella visione di Latouche il cambiamento può avvenire in tempi rapidi, senza bisogno di un soggetto investito di un ruolo guida. La trasformazione non può che avvenire con la partecipazione di tutti (al massimo solo il cinque per cento non sarà mai convinto) e le catastrofi provocate dal sistema svolgono una funzione educativa per affrettare i tempi della caduta della “cosmocrazia” che riunisce le oligarchie economiche e finanziarie. Una possibilità che può realizzarsi senza bisogno di prendere il potere.
Evidentemente si tratta di una prospettiva destabilizzante del modo di pensare comune e di fronte alla quale ha poco senso chiedersi quanti membri siano arruolati nel movimento della decrescita, o dell’«abbondanza frugale» per usare una formula più recente e meno inquietante. Sono idee e categorie diffuse e disseminate in realtà le più diverse. A cominciare dalla questione dei beni comuni. Basterebbe analizzare il movimento sull’acqua bene pubblico diffuso a livello mondiale. Fragile e senza risorse ma in grado di vincere un referendum anche in Italia, con l’aiuto “educativo” del disastro nucleare giapponese.
Solo alcuni spunti per capire il senso di un dialogo aperto e senza chiusure, per nulla accademico e staccato dalla vita.