Tra vita e morte quale confine?
Il caso Englaro ha suscitato negli scorsi mesi in Italia e continua a suscitare un ampio tam tam mediatico – trasmissioni, dibattiti, forum, pareri di medici ed esperti, sentenze della magistratura -, perché tocca questioni fondamentali per la vita di ognuno di noi. Se ne è occupato anche il Parlamento per sollevare un conflitto di competenze con la magistratura e per valutare l’opportunità di una nuova legge che regoli un campo così complesso. La Chiesa si è orientata proprio verso la prospettiva di una specifica normativa. Un paziente in stato vegetativo non è morto, ha tutta la dignità umana e nessuna volontà espressa da altri o dallo stesso paziente può cambiare questo fatto. Questo il commento del vescovo Elio Sgreccia, già presidente della Pontificia accademia per la vita, per sostenere le parole pronunciate dal card. Bagnasco il 22 settembre scorso sull’opportunità di una nuova legge che regoli il fine-vita. Necessità aperta dalla sentenza della Corte di cassazione del 16 ottobre dell’anno scorso che autorizzava la sospensione dell’alimentazione e idratazione di Elua na Englaro, come si sa in stato vegetativo da 16 anni in seguito a un incidente stradale. Sentenza che ha aperto un vuoto legislativo che i più attenti osservatori ritengono sia importante colmare in Parlamento affinché si evitino facili cadute verso l’euta nasia. Il fine-vita, infatti, interroga teologi, filosofi, giuristi, bioeticisti, politici, medici. In attesa di conoscere il pronunciamento della Corte di appello sulla sospensione dell’esecutività del decreto sul caso Englaro, questa volta vorremmo contribuire a far chiarezza sull’aspetto forse più importante, perché alla base di ogni discussione: cos’è lo stato vegetativo? È vita o è morte? La legge dello Stato italiano stabilisce che la cessazione irreversibile di tutte le funzioni dell’encefalo significa morte cerebrale legalmente riconosciuta. È uno stato da cui è impossibile ritornare. Una persona è considerata già cadavere anche se il corpo è caldo, anche se il cuore continuerà a battere per cinque o sei minuti e i polmoni, grazie ad una macchina, non esalano ancora l’ultimo respiro. La morte cerebrale viene decretata perché c’è la certezza della morte clinica, dichiarata dopo sei ore di elettroencefalogramma piatto, assenza di riflessi, di risposte motorie e respirazioni spontanee. Ben diverso è il caso del coma, dove il cervello non funziona ma è ancora vivo. Si distingue tra coma irreversibile – quando le lesioni cerebrali sono talmente gravi da non essere più recuperabili – e coma reversibile, quando i danni cerebrali possono guarire. Gli stadi del coma sono quattro: dal superficiale al profondo. Nel caso di Eluana siamo di fronte ad uno stato vegetativo permanente (diviene tale solo dopo un anno dall’inizio del trauma), anche se questo termine sembra assicurare l’irreversibilità per cui spesso viene oggi sostituito dai neurologi con la dizione stato persistente o cronico: solo nella morte cerebrale, infatti, c’è la certezza di aver superato per sempre il confine della vita. Esso è contraddistinto – ci spiega il prof. Luciano Donati – da parziale recupero della vigilanza, si aprono gli occhi, vi è un normale ciclo sonno veglia e alcuni riflessi comportamentali, ma non la consapevolezza di sé e di ciò che avviene nell’ambiente circostante. Altro caso ancora è quello di Salvatore Crisafulli, citato sul n° 15 di Città nuova. È la terribile sindrome del locked-in, che vuol dire chiuso dentro, in cui il paziente – prosegue il prof. Donati – è cosciente dell’ambiente, vigile, ma privo della capacità di rispondere. Oggi i loro occhi, grazie all’ausilio di un computer, riescono a comunicare con chi li assiste. La storia di Giuseppe Bari e Maria Adduci – da noi raccontata nel n° 13 di Città nuova – ci presenta, invece, un caso di stato di minima percezione in cui esistono cenni di comportamento volontario, senza la capacità di comunicare funzionalmente. I vari casi clinici descritti di stati vegetativi interrogano la scienza su quale sia il confine della vita umana e la soluzione è ancora molto aperta. Le lesioni cerebrali subite – sottolinea Donati – lasciano integre alcune connessioni tra la parte superiore del cervello e strutture che si trovano alla sua base, come il talamo, con diversi gradi di consapevolezza di sé e dell’ambiente. Recentemente, mediante l’uso di risonanza magnetica funzionale, si è dimostrata la presenza di attività di una ristretta zona della corteccia cerebrale, in un paziente in stato vegetativo. Questa è la sede di importanti funzioni, come memoria, concentrazione, pensiero, linguaggio, coscienza . La ricerca medico-scientifica necessita perciò di ulteriori approfondimenti – e di non poca umiltà da parte degli addetti ai lavori ma anche di chi pensa questi problemi etici e filosofici – per definire cosa provi una persona in stato vegetativo e quale grado di conoscenza e consapevolezza ci sia della propria condizione. Nel frattempo vanno assolutamente chieste per questi malati maggiori cure, un’attenzione migliore e una particolare protezione. Pare certo, comunque, allo stato delle ricerche mediche, che non si tratti di una vita vegetale, perché il cervello e altri organi vitali sono vivi e funzionano senza l’ausilio di macchine. Si tratta piuttosto di una grave e nuova forma di disabilità che come tale va trattata. È questo l’inse gnamento che ci sembra di dover trarre anche dalla forte testimonianza che pubblichiamo nel riquadro.