Tra Serbia e Kosovo

Gli avvenimenti ci riportano ancora una volta nei Balcani, dove si è appena realizzato il sogno rumeno e bulgaro di entrare nell’Unione europea, ma per fermarci questa volta – Dio volesse fosse l’ultima – là dove ancora si è acutizzata in questi giorni la ferita più profonda che la vecchia Serbia possa vivere. Sul ponte che a Kosovska Milrovica è presidiato dalle forze di intermediazione dell’Onu, si aprono ogni giorno i cancelli per fare passare nei due sensi, ieri chi andava a deporre fiori sopra una tomba, oggi chi va a votare. Sotto scorta armata. Tutti hanno lasciato qualcosa di sacro sull’altra sponda, se non altro i ricordi.Ma nessuno si attende qualcosa da queste elezioni. I serbi perché si sentono come chi ha già perduto la partita. Gli albanesi perché non sanno se e quando potranno raggiungere quell’indipendenza piena che il 90 per cento di maggioranza rappresentato in Kosovo della loro etnia dovrebbe garantire. Perché non dalle urne, ma dagli equilibri internazionali dipenderà il coronamento del loro sogno. E il potente protettore dei serbi, oggi come ieri, è la grande madre Russia. Su questo versante della contesa nessuno si fa illusioni. Al Palazzo di Vetro Putin si dice pronto ad usare il diritto di veto. Forse per questo motivo, alle elezioni appena svoltesi in Serbia non viene dato un gran peso sulla nostra stampa. I risultati, pur con qualche sorpresa, sostanzialmente hanno rispettato i pronostici. La maggioranza relativa se l’è aggiudicata il Partito radicale ultranazionalista di Seselj con il 28,5 per cento dei suffragi. Il Partito democratico del presidente della Repubblica Tradic dal 12,5 è passato al 23 per cento, e probabilmente formerà la nuova maggioranza di governo insieme al Partito democratico di Serbia di Kostunica e con quelli fra gli altri partiti minori che vorranno appoggiarlo. Ma gli allibratori non puntano su questi numeri. Si attende piuttosto cosa dirà domani Maarthi Ahtisaari, il mediatore finlandese dell’Onu che ha già presentato il documento finale per il Kosovo al Gruppo di contatto. Il Financial time, che si dice bene informato, parla di una amministrazione a scadenza per il Kosovo che verrà affidata all’Unione europea. I kosovari faranno parte degli organismi internazionali e firmeranno trattati; avranno accesso al Fondo monetario, alla Banca mondiale, assumendo beni e debiti della ex Jugoslavia; otterranno doppia cittadinanza e dovranno garantire protezione ai monasteri ortodossi; ma dovranno pure consentire l’autogoverno e l’autonomia locale ai 100 mila serbi del nord, oltre che ospitare i soldati della Nato, ai quali è affidato il mantenimento del nuovo assetto. Tutto cambia, perché nulla cambi, si potrebbe ripetere. In questo Paese, dove i ponti, costruiti, distrutti e ricostruiti sembrano avere fatto e disfatto la storia – penso a quello sulla Drina, immortalato da Andric, a quello di Mostar sulla Neretva, e a questo di Mitrovica sull’Ibar, presidiato dai soldati dell’Onu – si direbbe che ancora una volta la storia non si dia fretta per migliorare le condizioni di vita della gente che su questi ponti vorrebbe transitare in pace. Verso la fine del Medioevo toccò ai serbi, con molto eroismo, ma con poca fortuna, frenare su questi monti il dilagare della mezzaluna. Furono allora i turchi a costruire questi ponti, per agganciarsi meglio all’Europa che stavano conquistando.Ma presto altri eserciti li avrebbero usati marciando in senso inverso. Austriaci, italiani, tedeschi, russi a turno sono arrivati e se ne sono andati. L’idea di un’Europa unita stava intanto diventando realtà sul continente.Ma proprio qui, dove la Federazione jugoslava aveva tentato già qualcosa di simile, la storia girava in senso inverso. Forse perché quell’esperimento non era stato fatto nella libertà. Potremo finalmente dire che su questi ponti oggi la storia si è fermata, per ripartire nel senso giusto? Quanto meno potremmo augurarcelo. Ho sentito il cancelliere tedesco Angela Merkel, presidente di turno dell’Unione europea, ricordare che l’Unione nasce anche dalla lezione impartita dalle guerre combattute fra gli europei, dalle quali è nata la comprensione che ogni Stato nazionale può difendere meglio i propri interessi se si occupa anche di quelli dei suoi vicini. Forse il nuovo compito affidato all’Europa in questa parte più vulnerata del continente è di testimoniare proprio questo.

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