Tra santi e fondamentalisti
Quaid-i-Azam Mausoleum, nella immensa, vivacissima e caotica Karachi, è la tomba del grande leader, il fondatore del Pakistan moderno Mohammed Ali Jinnah, morto prematuramente dopo la costituzione dello stato creato nel 1947 con l’indipendenza dall’India. Da tutti amato, è il simbolo di una nazione tracciata sulla carta dai coloni britannici impazienti di andarsene dal subcontinente. Eredità scomoda, quella del neonato Pakistan, che ha conosciuto in pochi decenni assassinii di presidenti e violenze a sfondo religioso, un conflitto mai realmente risolto colla vicina India (tre guerre combattute) e una povertà a tratti terribile, accentuata dall’arrivo di milioni di profughi afghani. E poi la corruzione e i soprusi. Sappiamo tutto ciò. Ed è proprio per questo che mi viene il desiderio di conoscere invece la gente, di immergermi in questo mondo che tan- te ambasciate invitano ad evitare accuratamente. Così eccomi a nord del Bohri Bazaar, al culmine di una dolce collina. Issato su una piramide tronca, il monumento a Jinnah assomiglia – come notano gli stessi abitanti – al deposito di Paperon de’ Paperoni! In effetti la ricchezza del Pakistan sta anche nella memoria di Jinnah… Il tramonto è incantevole, e sul vasto piazzale di marmo bianco la gente si fa fotografare impettita con i granatieri e consuma il proprio picnic. La fierezza dei pakistani e il loro nazionalismo si sono dati convegno qui, assieme al loro giovane entusiasmo. E, forse, alla loro bella ingenuità. Karachi Caos e solidarietà Un’ingenuità che, nell’animata conversazione con l’avvocato Mir Nawaz Khan Marwat, già ministro della giustizia, giudice della Corte suprema e autorità influente nel mondo politico-giudiziario pakistano, muta in semplicità. Siamo una nazione ancora giovanissima – mi dice sorseggiando l’onnipresente chai, il tè al latte, la bevanda nazionale -, la seconda nazione musulmana per numero di abitanti, dopo l’Indonesia. Ma il nostro fondatore è morto troppo presto, lasciando la sua opera incompiuta: la lotta per il potere ha troppo spesso soppiantato lo sforzo per la costruzione dello stato, e gli ideali degli inizi – unità dello stato, religione musulmana tollerante verso le altre fedi, disciplina e onestà – sono rimaste sulla carta. Lo si vede nel livello miserevole del nostro sistema educativo, nella eliminazione fisica di tanti leader politici, nella negazione troppo frequente dei diritti dell’uomo. Questa non è ancora democrazia; tuttavia siamo sulla buona strada e si notano passi in avanti notevoli, anche perché l’economia pakistana ha ripreso ad avanzare. E il problema delle aree tribali al confine con l’Afghanistan? La guerra – afferma l’avv. Marwat – non è la soluzione. Il paese ha avviato un serio programma di dialogo a tutti i livelli in queste aree: bisogna studiare le tradizioni militari e culturali di ogni singola popolazione tribale e trovare gli accordi per l’integrazione in un Pakistan libero. Più gente onesta morirà, più la pace si allontanerà, anche perché ormai in quelle terre ci sono troppi adulti che non sanno fare altro che la guerra. Terroristi? Non hanno nessuna religione, sono nemici dell’umanità. Soluzioni? Tre: dialogo, educazione, sicurezza. Con una buona dose di perdono. C’è poi il problema della legge islamica, della shari’a. Tanti partiti politici – continua l’avvocato -, per catturare voti, hanno cavalcato ipocritamente la tigre della protesta islamica. Comunque la shari’a non è stata mai introdotta nel paese, e la pena di morte viene applicata solo in casi estremi, meno che negli Usa. E la discussa legge della blasfemia, che ha portato in carcere alcuni cristiani accusati di aver gettato per terra un libro del Corano, accusa di difficile prova? È una legge contro la blasfemia di tutte le religioni – precisa l’avvocato -. Non è contro i cristiani, anche se c’è gente in malafede che la applica contro di essi. Purtroppo ci sono provocatori tra i cristiani di certe sette protestanti, come ci sono tra i musulmani. Ma la magistratura sarà in grado di dare applicazione equa a questa legge. Meno sicuro della sua bontà è l’arcivescovo di Karachi, mons. Evarist Pinto, che tuttavia d’emblée si dichiara assai soddisfatto della situazione attuale nella metropoli: Da sei mesi non ci sono più attentati, e si respira un’aria più distesa. Restano tuttavia i problemi di fondo, come quello della blasfemia e quello della sicurezza delle nostre istituzioni; ma debbo dire che col popolo non c’è nessun problema, e il dialogo della vita esiste. Molti bambini musulmani frequentano le nostre scuole, e siamo impegnati anche nel campo della salute. La situazione è più difficile nel Punjab, per la sopravvivenza del sistema feudale che colpisce in particolare i cristiani, appartenenti alle classi più basse: sono spazzini o manovali. Il vescovo aggiunge una nota a cui troverò conferma nel mio viaggio: Cresce la percentuale delle famiglie distrutte, soprattutto per i mali della miseria. C’è poi da considerare che nella famiglia pakistana è assai pronunciato il potere del padre, e in genere dell’uomo, per cui la donna troppo spesso ne soffre: ma sempre più si ribella. E non va dimenticata l’ondata di separazioni indotti da una società sempre più relativista e materialista . Per fortuna Karachi è pure la città di straordinarie solidarietà, come quella di Edhi Abdul Sattar, colui che aiuta la gente abbandonata, che soccorre i feriti e seppellisce i morti. Merita il Nobel, certamente. Lahore Il profondo Punjab Lahore, capitale del Punjab pakistano, è metropoli e villaggio. Quante capre e pecore, asini, cammelli e cavalli deambulano nella Old City, la città vecchia intasata all’inverosimile d’ogni forma di trazione umana, meccanica o animale! La gente mi abborda, scambia due parole e poi mi lascia con un sorriso… Gente semplice; scorgo solo un turbante verde – che contraddistingue certi fondamentalisti -, ma pure lui mi sorride, dopo un istante di scontro degli sguardi. La Old City è un enorme bazar che si estende su circa due chilometri quadrati a sud delle bellezze incomparabili della Badshahi Masjid e del Shahi Qila, il vecchio forte, espressioni compiute dell’arte moghul: spazi perfetti, volumi armoniosi, decorazioni mai stucchevoli. Compro una bibita, il negoziante non vuole nulla: Lei è un ospite del Pakistan, mi fa. E io sento la mia aulica civiltà occidentale decrepita e incivile. L’accoglienza non è invece al suo acme alla frontiera tra Pakistan e India, fratelli-nemici, ad una trentina di chilometri dalla città. Wahga è annunciata da lontano da uno strano stadio semicircolare, rivolto verso il paese nemico. Mi avvicino, ed ecco un’altra tribuna, questa volta al di là dei due cancelli che segnalano la frontiera, rivolto verso il Pakistan. Poco alla volta gli spalti si popolano di uomini e donne armati di bandiere del proprio paese e di una forte vena nazionalistica, come traspare dagli slogan dei partecipanti al singolare spettacolo. Sì, perché di uno spettacolo si tratta, messo in scena dalle guardie dei due paesi al momento della chiusura serale della frontiera, secondo un rigido cerimoniale concordato tra le parti. Mentre dagli spalti si leva un tifo da stadio, nella via che unisce i due stati i ranger da parte pakistana e i corazzieri da parte indiana si scambiano gesti e parole e grida di sfida, applauditi, osannati o vituperati dai rispettivi supporter. Uno spettacolo incredibile, che dice la straordinaria vena nazionalistica dei due paesi, ancora sotto l’onda lunga della separazione che nel 1947 provocò decine di milioni di immigrati. Colgo gesta e grida che paiono oltre il limite dell’odio; ma anche qua e là il sorriso di sapere che non si sta facendo sul serio. Al ritorno in città, amici comuni mi presentano un alto funzionario del governo che conosce gli ingranaggi dello stato meglio dei politici di professione. Un uomo dalla cultura vastissima, di dialogo e princìpi, modesto nelle esigenze e nello standard di vita. Non appare, ma conta. Anche per lui Jennah è morto troppo presto, portando con sé nella tomba il sogno di un paese nel contempo laico e musulmano, in cui i mullah non avrebbero avuto nulla da dire sulla conduzione politica del paese. Purtroppo le cose sono andate diversamente, e i governi si sono succeduti ad una velocità eccessiva, incrementando la corruzione e mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza di un Pakistan libero, attento ai poveri e forte economicamente. Altro problema, il fondamentalismo islamico: In Pakistan appena l’uno per cento della popolazione ha una visione fondamentalista della religione, ma una minima parte di essi potrebbe abbracciare le armi. Quasi tutti vivono nelle zone tribali, fuori dal controllo delle forze dell’ordine pakistane; anche se la situazione sta rapidamente cambiando, perché le popolazioni locali sono stanche dell’isolamento e della miseria in cui versano, e perché il governo sta ponendo la massima attenzione nel controllo delle scuole coraniche, lì dove nascono i terroristi. Recandomi all’aeroporto, rischio di perdere l’aereo per un blocco stradale dovuto al passaggio del presidente Musharraf. È l’occasione per chiedere all’alto funzionario il suo parere sul generale: Non bisogna giudicarlo come un militare venduto agli americani. Sta operando bene, ha una visione laica della vita politica, e sta riavviando la macchina politica e sociale pakistana. Bisogna lasciarlo lavorare; riuscirà nei suoi intenti, perché in fondo la gente lo ama. Rawalpindi e Islamabad Mujaiddin e colonnelli Assai poco di turistico offre Rawalpindi, più volte distrutta e ricostruita. Ma la gente è più che interessante. In un breve giro al Rajah Bazaar, un concentrato di umanità come pochi al mondo, noto che la gente è benevola nei miei confronti, nonostante sia uno dei pochissimi stranieri ad avventurarmi nei suoi dedali. Tanti, vedendo la mia fotocamera, chiedono che gli scatti una foto. Le donne sono vestite nei modi più diversi: si fiancheggiano burqa, donne col volto coperto, altre con un semplice velo e coloro che non portano nulla sulla testa. È il volto antico del Pakistan. Quello nuovo lo si trova invece a Islamabad, contigua a Rawalpindi, la capitale amministrativa costruita negli anni Cinquanta come vetrina modernista del paese. Impressiona l’affascinante moschea di Shah Faisal, donata dal governo saudita. La facciata, imponente e leggera, è tutta in marmo bianco di Carrara. È il luogo di culto più imponente del paese. Quattro minareti, alti 88 metri, paiono missili lanciati verso il cielo. Ma Islamabad assomiglia a Brasilia e a New Delhi, città costruite più o meno nello stesso periodo, tutte e tre prive di una vera anima. Gli ampi spazi dei viali e l’orditura ortogonale della pianta della città sembrano così lontani dalla mentalità paki- stana che ci si chiede come si possano costruire città del genere. Con tali sensazioni di antico e di nuovo nel cuore e negli occhi, incontro alcuni amici musulmani. È con loro che il dialogo sull’oggi del Pakistan si fa più approfondito, fermandosi meno sulle statistiche e sulle curiosità politiche e più sulle ragioni di una speranza. Una giovane donna, ormai prossima alle nozze, momento centrale della vita di ogni pakistano – la ragazza desidera con coraggio un matrimonio senza sfarzo, coll’uomo che lei stessa ha scelto, d’accordo con la famiglia -, è esplicita: Il Pakistan è nato da un progetto di pacificazione interreligiosa e col desiderio di rispettare le minoranze. Anzi, finora questa è stata una delle caratteristiche di cui il Pakistan deve andare fiero: se qualcuno pensa che si possa tornare indietro e che si debbano discriminare coloro che non sono musulmani, beh, hanno torto. Islam significa pace, amore dell’umanità, non discriminazione. Un uomo sulla sessantina, tipografo, rincara la dose: Non siamo soddisfatti per la grave situazione di guerra che persiste nel vicino Afghanistan e nelle zone tribali. C’è troppa gente che ancora soffre, e speriamo solo che le superpotenze la finiscano di sfruttare la povera gente. Il mondo non può essere considerato un’unica nazione con un solo presidente a capo di tutti! Un solo capo non è compatibile con quel rispetto reciproco che accomuna tutte le religioni, e che è comandamento anche per la fede di colui che pretende di governare il mondo da solo…. Non c’è astio nelle sue parole, ma chiarezza. Un imprenditore edile aggiunge: Il Pakistan è stato il primo paese costituito in nome dell’Islam, prima ancora dell’Iran. Dovrebbe essere quindi d’esempio per i musulmani di tutto il mondo, per la sua applicazione del Corano della misericordia e della tolleranza. I fondamentalisti sbagliano. Ma per combatterli bisogna cercare di capire i motivi che li hanno spinti a scegliere un Islam duro: alla base delle loro scelte c’è la miseria, la guerra che chiude le scuole, la discriminazione di cui talvolta i musulmani sono oggetto in occidente. Un colonnello dell’esercito, uomo di pace e pacificazione, da tempo impegnato in azioni di peace keeping nelle zone calde del paese, ha grandi speranze: Il Pakistan è il paese dei puri. Io credo che l’animo del mio popolo sia tale: va cercata di nuovo la purezza nelle relazioni interpersonali, nell’economia, nella vita militare, nella vita sociale, nelle relazioni internazionali. L’Islam è una religione che rispetta tutti, che considera Bibbia ebraica e Vangelo come libri suoi. Ecco, credo che un rapporto rinnovato tra i fedeli delle tre religioni monoteistiche porterà la pace. Incontro pure un afgano che aveva combattuto coi mujaiddin. Li ha lasciati, preferendo la nonviolenza, pur non dimenticando i torti subiti dal suo paese. Nel campo profughi – mi dice – la mia famiglia vuole testimoniare la pace. È possibile e contagioso: afghani e pakistani vogliamo la pace e la giustizia. Sottoscrivo. QUALCHE DATO SUL PAKISTAN La Repubblica islamica del Pakistan, con capitale Islamabad, conta circa 150 milioni di abitanti. La città più popolosa è Karachi, con 16 milioni di abitanti, mentre la capitale culturale è Lahore. I gruppi etnici più importanti sono i punjabi, i sindhi, i pashtun, i baloch e i mohajir. Il 97 per cento della popolazione è musulmano, l’1,5 cristiano. Lingua nazionale è l’urdu. L’alfabetizzazione è al 60 per cento per gli uomini e al 30 per le donne. 550 mila uomini lavorano nell’esercito. Il debito estero è di 36 miliardi di dollari, il reddito pro capite è di 460 dollari. La seconda montagna al mondo, il K2, è in territorio pakistano. Lo sport nazionale è l’hockey su erba, ma si gioca a cricket in ogni angolo di strada.