Perù tra ricatto e giustizia
In qualsiasi altra circostanza lo si chiamerebbe un ricatto quello al quale è sottomesso in questo periodo il presidente del Perù, Pedro Pablo Kuczynski. Ricatto che consiste nella possibilità che il Parlamento, unicamerale, nel quale i seguaci dei Fujimori, padre e figlia, controllano la maggioranza, potrebbe mettere i bastoni tra le ruote al governo, messo in minoranza, negando al suo governo la necessaria fiducia. Appena 10 giorni fa, il primo ministro di Kuczynski è stato obbligato alle dimissioni proprio per aver perso il voto di fiducia sulla riforma dell’educazione. Il sistema politico peruviano è un misto tra un governo parlamentare e un governo presidenziale, in cui il capo dello Stato nomina il primo ministro che governa con il placet del Parlamento. Kuczynski deve decidere se cedere alla pressione di Fuerza Popular, il partito col maggior numero di deputati, che pretende gli arresti domiciliari per l’ex presidente ed ex dittatore Alberto Fujimori, che sconta una sentenza di condanna a 25 anni di carcere per violazione dei diritti umani durante la sua gestione e per corruzione. La richiesta vorrebbe instillare nell’opinione pubblica l’idea che ciò sia obbligato dalle condizioni di salute dell’ex-presidente. Sebbene abbia 79 anni, quanti ne ha d’altronde il presidente in esercizio, il recluso in realtà conduce una vita attiva, con un regime di visite privilegiato che lo rendono un attore politico tuttora presente nel dibattito attuale. Tanto è vero che chi nicchia in merito alla richiesta è guarda caso sua figlia Keiko, leader del partito, che sembra non interessata alla presenza di una figura che le farebbe ombra, anche se questa figura è quella di suo padre.
Il populismo dei Fujimori è ancora vivo e quasi il 60% della gente è a favore dei domiciliari. Nel frattempo, sul futuro del recluso si addensano nuove nubi. Nonostante l’occhiolino fatto alla magistratura che ha voluto archiviare il caso della sterilizzazione forzata di 236 mila donne avvenuta durante la sua gestione, un nuovo dossier presentato da organizzazioni della società civile è stato fatto pervenire in tribunale. In esso, gli specialisti sostengono che 211 mila donne vennero sterilizzate in base a informazioni incomplete e 25 mila non sapevano che si trattava di un sistema irreversibile. Molte di queste donne non parlavano nemmeno lo spagnolo ma il quechua. Durante gli anni ’90, Fujimori promosse una campagna di controllo delle nascite nei settori più poveri del Paese, in molti casi tra donne di minoranze indigene. Almeno 2 mila di esse hanno denunciato questi fatti sui quali i magistrati hanno fatto orecchie da mercante, nonostante l’intervento della Commissione interamericana per i diritti umani, che considerò ammissibili le denunce. Kuczynski, che in campagna elettorale fece intendere che non avrebbe concesso un indulto, spiega ora che si stanno valutando le condizioni di salute di tutti i detenuti anziani, e dunque non si tratterebbe di un intervento ad personam. Ma la sfida permane. Quale altra richiesta potrà mai avanzare il fujimorismo se venisse accontentato questa volta? Ma soprattutto: di quale giustizia si potrà mai parlare nel suo Paese se un ex dittatore, detenuto per violazione dei diritti umani, è in grado di mettere in ginocchio un governo legittimamente eletto? L’appoggio popolare non è sufficiente per giustificare tale decisione. Non sempre vox populi, vox dei.