Tra Pirandello e Breckett

C’è un teatro a togliere e uno a riempire. Due scuole diverse, che fanno la differenza. Due esempi, agli antipodi, li abbiamo avuti assistendo a pochi giorni di distanza a Fragments di Beckett, con la regia di Peter Brook, e a I giganti della montagna di Pirandello, regia di Federico Tiezzi. E il raffronto tra questi due modi nasceva inevitabilmente. È la differenza che esiste tra un teatro vuoto (quello di Brook) e uno pieno (di Tiezzi), inteso non come capienza numerica ma come qualità, come capacità o meno di veicolare contenuti ed emozioni. Quello di Brook è la dimostrazione continua di come si possa fare del vero teatro, semplice ed altissimo, sgombrando la scena e riempiendola con la sola presenza degli attori; quello di Tiezzi invece risulta artificiale, difficile, troppo intellettuale, perchè tende, con gran dispiego di mezzi, a sovraccaricare. Nell’allestire il testo incompiuto di Pirandello, Tiezzi lo ha caricato di suggestioni letterarie, di rimandi ad altri autori e di un personale immaginario visivo che va dal cinema ai fumetti al circo fino ai manga giapponesi. Risultato: uno spettacolo formalmente raffinato ma non comunicativo, perché la drammaturgia si disperde e il sovrapporsi di tanti elementi genera confusione, non permettendo di districarsi nei contenuti. A tutto questo si aggiunge una recitazione non all’altezza della resa del testo. Ogni attore recita a modo suo, e fra questi una Iaia Forte tutta pose e declamazione, priva di qualsiasi ascendente nel ruolo della determinante contessa Ilse, la guida del gruppo di teatranti giunti nella villa degli Scalognati, che siscontrano con gli strambi abitanti del mago Cotrone nella impossibilità dell’incontro tra arte e vita. Cinque pezzi di Beckett riuniti in Fragments – che si avvalgono di tre straordinari interpreti Jos Houben, Kathryn Hunter e Marcello Magni – ci immettono nell’universo dell’autore irlandese. In Rough for theatre I assistiamo alla grottesca e minacciosa schermaglia tra uno storpio e un cieco che cercano, avvicinandosi e respingendosi, di aiutarsi nella comune disgrazia, bisognosi l’uno dell’altro. Rockaby è il soliloquio di un’anziana donna che ricorda, dondolandosi nella sua sedia (ma qui sostituita da una rigida), brandelli di vita apparentemente banali. In Come and go tre veterane su una panchina, cercando complicità l’una nell’altra, si alternano a coppie nel sussurrarsi all’orecchio pettegolezzi reciproci. Toccati da un bastone appuntito che scende dall’alto, in Act without words II, due uomini fuoriescono a turno da due sacchi, a rappresentare modi diversi di affrontare la vita: quello pessimista, che vede nella routine di tutto ciò che gli succede sofferenza e maledizione; e l’altro, invece ottimista, che sa gioire di tutto quanto ha e vive. Insomma aspetti diversi di un più vasto discorso drammaturgico che ci restituiscono una sintesi folgorante della condizione dell’uomo.Con la sapiente ironia di Brook.

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