Tra l’aceto e la pagaia

In Brasile continuano le sfide per la conquista della Confederations Cup, tra scontri fuori dagli stadi e incontri sul campo da gioco
Confederations Cup

Li chiamano «effetti umani inintenzionali di azioni umane intenzionali». È un po’ quello che sta succedendo in Brasile in queste ore mentre negli stadi carioca va in scena il torneo della Confederations Cup, la coppa delle federazioni continentali, una sorta di prova generale in vista dei Mondiali del 2014. Chi se l’aspettava una rivolta popolare di queste dimensioni? In molti avranno pensato: "Però, campionati del mondo di calcio nel 2014, Olimpiadi nel 2016: una gran bella spinta per un paese che è già in forte sviluppo economico”. A confermarlo sono i dati del Fondo Monetario Internazionale: +7,5 per cento punti di prodotto interno lordo (Pil) nel 2010, +2,7 per cento nel 2011. La fotografia è quella di una realtà che tutto sommato non se la passa male vista l’aria che tira in giro.

Il problema è che il potere a lungo andare fagocita e logora chi lo detiene, al punto da far manovrare a un numero ristretto di mani grosse quantità di denaro. È una minoranza organizzata che governa la politica, così la possibilità di far crescere il bene comune assieme alle belle speranze vanno a farsi benedire. «I ricchi non possono vivere su un'isola circondata da un oceano di povertà – disse il grande pilota brasiliano Ayrton Senna -. Noi respiriamo tutti la stessa aria, bisogna dare a tutti una possibilità». Forse manca qualcuno con questo carisma e non solo in Brasile.

Fuori dagli stadi “va in onda” la rivolta del “popolo dell’aceto” (l’aceto placa gli effetti dei lacrimogeni lanciati dalla polizia), che è riuscito a capire che il calcio non è solo “futebol”, ma anche una ghiotta occasione per capitalizzare e manovrare a spese dei soliti. «Il budget federale speso per le strutture del Mondiale è un finanziamento che sarà debitamente pagato dalla FIFA e dai governi dei Paesi che parteciperanno al torneo – ha dichiarato il presidente del Brasile Dilma Rousseff -. Non permetterò mai che con la scusa di costruire edifici per il Mondiale vengano toccati finanziamenti destinati al bilancio pubblico federale». La Rousseff allora ci spalanca le porte di un orizzonte internazionale: o anche l’Italia paga per i Mondiali brasiliani o le sue dichiarazioni sono false. Difficile capire come andrà a finire, visto che nel nostro Paese nessuno ci ha detto se e quanti soldi sono partiti per il Sud America.

Intanto fuori lo scontro, dentro l’incontro e in campo la nazionale di Tahiti, campione d’Oceania, ne è stata l’emblema con un calcio giocato al limite del “parrocchiale”. Solo un goal segnato e festeggiato al ritmo della pagaia, sconfitta per 10 a 0 con la Spagna, un solo giocatore professionista, Marama Vahirua e un capitano, Nicolas Vallar, che approfitta del palcoscenico internazionale per dichiarare che il lavoro manca anche a Tahiti e che lui cerca un’occupazione nel mondo dello sport.

Prima di ogni partita i polinesiani hanno regalato ad ogni avversario collane di perle come da tradizione. Differenze che ci fanno rendere conto dell’identità di un popolo, ma che in questo caso ci riportano a quel desiderio comune di calcio come momento di vero incontro. Secondo l’antropologo Levi-Strauss «bisogna “ascoltare la crescita del grano”, incoraggiare le potenzialità segrete, risvegliando tutte le vocazioni a vivere insieme». Già, ma è vero anche che «nei circuiti dell'informazione, perfino una manifestazione di pacifisti o il tifo di una nazione per un avvenimento sportivo agiscono come incitamento alla febbre della guerra». E allora come la mettiamo?

(nella foto una manifestazione di protesta pacifica)

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons