Myanmar, tra i “senza ciabatte”
Il volo Bangkok-Yangon di qualche giorno fa era puntualmente mezzo vuoto. In questo periodo si viaggia davvero bene. Il caldo secco ti avvolge e t’inviterebbe a passeggiare per le strade senza la maglietta: ma non è possibile. Ma te lo godi tutto, il caldo, quando visiti la dorata pagoda Shwedagon, il luogo più sacro e noto del Myanmar. I raggi del sole sulla spianata del tempio, sembra ti facciano una radiografia ai polmoni anche attraverso la camicia, tanto sono forti e penetranti: i miei polmoni che, lontano dalla malefica aria condizionata onnipresente a Bangkok che ti fa ammalare, speriamo siano senza il Covid-19. Arrivo da Bangkok, dove non vedi più la faccia della gente nascosta dietro la paura e le mascherine che sono onnipresenti: più per paura che per protezione, ma la gente è davvero spaventata. Non puoi più recarti al ristorante, al cinema, in Cina per le vacanze e nemmeno in Giappone sulla neve. Qui in Myanmar, invece, la gente non è per niente spaventata del virus: il loro sole forte ed il caldo asciutto, almeno fino a maggio inoltrato, li protegge. E pochi nutrono il sogno di viaggiare all’estero, con gli stipendi che si ritrovano. Se vuoi puoi benissimo trovare e portare le mascherine, lavarti le mani con l’alcool che si trova ovunque: ma la gente non si mette le mascherine. Autobus strapieni, uno accanto all’altro e… avanti! Sarebbe impossibile respirare con questo “bel caldo” che dona la gioia di sentirti vivo, in una periodo dove davvero devi ringraziare il Cielo che non hai la tosse e la febbre.
Così è successo a me, mentre per lavoro mi trovo a mescolarmi in mezzo ai bimbi di una delle “terribili” periferie delle grandi città del Sudest asiatico e documentare alcune attività. Mi guardano come fossi un marziano, con i miei capelli bianchi, e non posso scattare foto con la grande macchina fotografica, ma con uno speciale telefonino, che ha ottime lenti incorporate. Questo per non spaventarli. Molti dei bimbi che trovo non hanno l’acqua nelle loro capanne, e quando li avvicini puoi capire molto bene da quanti giorni non facciano la doccia, oppure che tipo di cibo abbiano mangiato… Sempre che abbiano mangiato! Molti di loro, osservo, non hanno nemmeno le ciabattine. E questo è molto pericoloso. La maggior parte dei parassiti che entrano nel corpo umano, in questa parte del Sudest asiatico, vi entra certamente attraverso lo stomaco, con i cibi che mangiamo: ma anche e soprattutto attraverso i piedi e precisamente tra le unghie e la pelle. In questi anfratti corporali c’è sporcizia, mentre li immergono nell’acqua inquinata delle pozzanghere. Questi bambini, troppi purtroppo, non hanno ciabatte per proteggere i piedini, con grave rischio per la loro salute. Così li avvicino, sto con loro, faccio il mio lavoro fotografandoli, e poi li lascio perché mi propongono di aiutare a distribuire le uova ai circa 250 piccoli presenti. Così vengono davanti a me e li posso vedere bene. Potrebbero essere i miei figli, miei nipoti.
Il Myanmar è un paese affascinante, direi da fiaba: un paese caldo e secco in questo periodo, dove il virus Covid-19 sembra non attaccare. O meglio, sono così tante le preoccupazioni della gente, che spesso deve lottare, in questo preciso luogo da dove scrivo, come la scabbia, la tubercolosi e potrei continuare con un lungo elenco, che il Covid-19 è lontanissimo per loro. Poi c’è la fame quotidiana, e un altro pericolo ben più grave: si chiama “febbre dengue”, che colpisce ogni anno 390 milioni di persone nel mondo (e di cui poco si parla), con circa 500 mila casi manifesti e abbastanza gravi, da causa più di 25 mila morti all’anno. E non la prendi, la dengue, in aeroporto, al ristorante con aria condizionata, ma nei campi profughi lavorando nelle campagne, nelle periferie, e colpisce tanta gente comune o di classe medio-povera. È una “malattia dei poveri”, come dicono alcuni esperti: io l’ho presa, per il mio lavoro; o meglio, lei ha beccato me già tre volte e me la sono sempre cavata rispetto ai 25 mila che lo scorso anno sono morti. Il medico m’ha detto di prepararmi per l’ultima “iniezione”, la quarta, che sicuramente prenderò. Come dice una mia amica che vive ogni giorno in mezzo ai poveri di strada a Saigon: «Non ti preoccupare: un giorno tutti moriremo. Meglio morire per aver amato chi stava peggio di noi». E lei rischia la tubercolosi ogni settimana, andando a pescare le ammalate che non hanno i soldi per farsi curare.
Gli occhi dei bimbi e delle loro mamme, felici per le due uova e per le foto ai loro figli, rimangono nella mia mente anche di notte. Si dorme sempre male dopo questi servizi fotografici. Non mi abituo mai al dolore dei piccoli, ai loro occhioni neri. Questi bambini meravigliosi e puzzolenti per mancanza di doccia, per i piedi sporchi e a volte sanguinanti, mi ricordano quell’Uomo che ha scelto i poveri per annunziare il suo regno. Non poteva fare una cosa diversa: scegliere i “senza ciabatte”, e prendere su di sé tutte le loro malattie.