Tra gli “invisibili”
Ventimiglia primo giorno dell’anno nuovo. A metà mattinata la città sonnecchia, sono pochi i bar aperti per un caffè. Poche persone in giro. Dalle otto del mattino però un pugno di volontari stanno preparando la colazione e poi cuoceranno il pranzo nella mensa della Caritas. Latte brioches, the e fette biscottate, poi cuoceranno la pasta al tonno, sbrusteranno le mozzarelle, la frutta e affetteranno il pane. Nel cortile un gruppo di ragazzi dell’Azione cattolica monta i tavoli, prepara il corridoio per la distribuzione. Tra poco i primi “invisibili” arriveranno. Se ne aspettano un numero imprecisato da cento a duecento. Tutti ragazzi giovani, tutti provenienti dall’Africa. Sorridenti, chi nascosto in giacconi e sciarpe chi in tute sportive. Arrivano tutti dallo stesso posto. Vengono da una tendopoli allestita sotto il viadotto della strada che sale in Val Roya. Qui sostano appunto gli “invisibili”, coloro che sognano di passare il confine prima possibile. Per questo non vogliono essere schedati, e per questo non bussano al centro di accoglienza della Croce Rossa. Pochi chilometri più avanti.
Ventimiglia è il cul de sac per dirla in francese, o se preferiamo il filtro, l’imbuto dentro il quale si deve passare per raggiungere l’Europa del nord. Nel bar vicino alla stazione la proprietaria ci prepara un caffè e ci domanda la provenienza. Raccontiamo ma soprattutto ci facciamo raccontare. Lei è una immigrata dal sud Italia è arrivata con i genitori nell’Emilia, poi il trasferimento in Australia, tanti anni, e poi Ventimiglia. Sa cosa significa essere o come nel suo caso sentirsi stranieri. E così nel suo bar, da quando Ventimiglia è stata presa d’assalto, è diventato punto di accoglienza. «Due estati fa racconta, c’era una lunga fila di persona dall’altro lato della strada, si riparavano dal caldo all’ombra. C’erano donne incinte e bimbi piccoli. Li ho invitati nel locale per bere e ripararsi. Da allora il locale è diventato un punto amico per queste persone». Ci si può stare anche senza consumare. Addirittura nella saletta dove si giocava a carte c’è ora un armadietto con album e colori. I bimbi vanno a disegnare e un’amica insegna la lingua italiana a chi lo desidera. Ma ci si può anche cercare lavoro, casa. E soprattutto calore umano.
Naturalmente in quel bar i cittadini di Ventimiglia non ci mettono più piede. Colazione, pranzo è tutto un continuo. Finita la colazione i nostri amici aspettano il pranzo. Poi velocemente spariscono. Ne seguiamo alcuni che ci portano sotto il viadotto. Stringe il cuore e un groppo in gola soffoca qualsiasi pensiero. Ma loro sono sereni, in gruppetti giocano a palla, altri attorno ad un fuoco parlottano. Ci salutano e si raccontano. C’è invece chi sbircia da sotto i tendoni per vedere cosa sta succedendo. E chi su un tappeto raccolto dal cassonetto della spazzatura prega Allah. E chi ci spiega che è al decimo tentativo di attraversamento della frontiera. Sempre ripreso e sempre riportato in Italia. Qui è vietato pensare, si può solo constatare il livello dell’umanità. Si può solo osservare in silenzio, con le lacrime agli occhi la fine dell’Europa dei popoli e l’inizio dell’Europa degli egoismi. «Ma la felicità è quella che ciascuno di noi tiene nel suo cuore e dona a chi gli sta accanto», dice un ragazzo nigeriano. E qui è davvero così.
Ormai s’è fatto buio e dai paesetti della valle Roya scendono le auto dei francesi, stasera anche da Nizza e Montpellier, arriva la cena. Il riso le uova, le bevande calde, il formaggio. La frutta. Ogni giorno è così: mensa Caritas gestita da tanti volontari che portano vivande, ogni sera da oltralpe i francesi portano la cena. Abbracci, auguri. Panettoni. Il primo giorno dell’anno è trascorso così, come l’ultimo. Qualcosa da mangiare, felicità da donare nella maniera più semplice e sogni da coltivare. Quella di poter un giorno essere considerati persone a tutti gli effetti. Non uomini schedati, senza patria e senza diritti.