Tra favola e visione

Cosa vede Mozart, a pochi passi dalla morte, nel 1791 in quel Flauto esoterico-fiabesco- illuminista che tormenta le menti degli esegeti, però brilla sull’anima del pubblico? Perché la favola di Tamino-Pamina e della loro iniziazione massonica, il divertissement di Papageno- Papagena, il simbolismo luce-tenebre (Sarastro- Regina della notte), evidenti e divertenti, sono un velo misterioso dietro cui Amadeus si cela. Lascia intravvedere sprazzi della sua innocenza presente-perduta, nel gioco serio e terribilmente maturo d’indagare sull’uomo. Una musica ispirata, dal ventaglio popolaresco ma pure nobile e declamatorio, religioso ma anche un po’ pazzo, con un’orchestra che lievita in delicatezze e preziosità uniche, solleva a tratti quel velo che Amadeus nasconde così bene, sicché noi vediamo il suo cercare una riposta al mistero vita-morte, mortalità-immortalità che il Nostro insegue con un appena percettibile dramma. Altro che favola per bambini, il Flauto. Pure, alita un soffio che rende tutto leggero, così che occorre ritornare bambini per assaporarne l’invidiabile freschezza e venir toccati dalla risposta finale, che è speranza di luce. L’edizione, già nota, di Pizzi-Gelmetti punta a tableaux neoclassici simbolici, come i costumi giocati su colori fondamentali, e la regia compunta che mira ad evidenziare il dettato musicale. La direzione di Gianluigi Gelmetti tocca una morbidezza totale di suono, cui si presta l’orchestra puntuale, specie nelle prime parti (Palermo, clarinetto; Smordoni, fagotto), anche se forse ci si aspetterebbe qua e là più estro. Sempre belli alcuni momenti: la trina degli archi nel duetto finale Papageno- Papagena, la corale degli ottoni nei passi paraliturgici… Valente il cast: la sicurezza vocale di Elizabeth Vidal ( Regina), il lirismo cantabile di Gemma Bertagnolli (Pamina) e di Robert Lee (Tamino), il Sarastro nobile e dal colore verdiano di Marco Spotti, il Papageno azzeccato di Alex Esposito, e i tre magnifici genietti del Tölzer Knaben Chor. Un po’ discontinuo il coro, ma per il resto lo spettacolo funziona. Altro che luce. È tenebra fitta quella del Macbeth, testo e musica ridotti all’osso da Salvatore Sciarrino nel 2002. Un’umanità truce, sanguinolenta, figure che sporgono come ragni dal soffitto – bellissima invenzione – o spuntano come enigmi dalle quinte, in un baluginare cupo rotto da luci fredde. Macbeth e la Lady tramano uccidono e muoiono senza alcuna redenzione. Parabola del male che si ritorce su sé stesso, l’opera vede una musica misteriosa, postmoderna nel suo cucire frammenti: dalle citazioni del Ballo verdiano al Don Giovanni mozartiano, dai canti tribali africani agli arcaismi mediterranei, sino ad una dissonanza vitrea del suono rabbrividente, ma efficacissima. Una visione di disarmonia globale, ansiosa di verità. Splendidi il cast, specie Anne Stricker, Lady spettrale e Otto Katzameier, Macbeth pupazzo vitreo, l’Orchestra Klanforum Wien guidata dal giovane bravissimo Johannes Debus; affascinanti i costumi di Amanda Freyer e la regia ossessiva, disumana, di Achim Freyer.

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