Tra corpo e anima

Appuntamento per la terza settimana del mese con il primo dei brani tratti da Le fragilità dispettose di Città nuova. Nell'essere legati a qualcun altro è insito il senso della responsabilità e della privazione.Come affrontare la perdita dei legami nella nostra società?
Con l’avvento della tecnologia e la conquista di una serie di diritti  nella società contemporanea, l’uomo dovrebbe rasentare uno stato di felicità pressocchè "estatica" ogni giorno. Nulla di tutto ciò alla luce del fatto che un certo numero di persone nella nostra società soffre a causa di certe patologie, come se l’uomo avesse bisogno di trovarsi di fronte al limite che aveva dimenticato di avere. Seguendo la teoria di Abraham Maslow elaborata negli anni ’50 sui bisogni e le motivazioni che sottostanno ai comportamenti degli individui, si prova a spiegare che nell’Occidente soffriamo di determinate patologie legate all’autostima  o all’autorelaizzazione e perché il problema è diventato "il senso" della vita e le nostre identità.

 

Cerchiamo di soffermarci attraverso la lettura di un brano de Le fragilità dispettose. Come non perdersi di vista nella sofferenza di Daniela Spanò e Daniela Maria Augello di Città nuova, in particolare sui rapporti che creiamo quotidianamente, per analizzare con gli autori quando essi diventano fonte di sofferenza.

 

«Guardiamo i legami senza definirli sani o disfunzionali. Osserviamo il legame in quanto legame, a prescindere dai suoi presupposti di formalizzazione. Pur essendo la contestualizzazione delle relazioni importante, soffermiamoci sull’essenza di un rapporto duraturo e significativo tra due persone, che siano esse amiche, compagne o coniugi. In particolar modo, esaminiamo le difficoltà che incontriamo quando ci troviamo in contatto con un’altra persona e stabiliamo con essa, appunto, un legame.

 

«Legame, dal latino “ligare”. Essere legato, vincolato, unito o collegato a qualcos’altro o a qualcun altro. Cominciamo male. Il termine rimanda già all’idea di un bel nodo, di un vincolo. Nell’essere legati a qualcun altro è insito, più che il senso dell’incontro, quello della responsabilità, della privazione. Se chiediamo soccorso alla terminologia musicale, le note “legate” sono quelle che vanno eseguite senza interruzione alcuna, diciamo senza pause nel ritmo: ne viene fuori una bella melodia, ma non sono previsti “spazi”.

 

«Più il legame è situazionale, vincola cioè solo per poco tempo a una determinata persona, più è facile da gestire. Posso mandare un’occhiataccia alla signora che cerca di intrufolarsi nella coda alla posta, posso essere solidale con chi mi racconta il suo malanno mentre siamo in turno nell’ambulatorio medico, ma quel momento passerà e io tornerò ad altri legami, ad altri vincoli più significativi. Anche a lavoro instauriamo legami. Con alcuni colleghi costruiamo relazioni affettive extralavorative, con altri interagiamo soltanto per garantire la funzionalità del lavoro (…).  La regola è chiara. Il legame è creato dai contesti, dagli affetti e dalle situazioni. Vicini uguale legati. Lontani uguale semplici conoscenti. Il legame implica vicinanza, quotidianità, costanza. Perché diventa difficile da gestire e può generare sofferenza?

 

«Nell’entrare in contatto con l’altro intervengono numerosi fattori. Il legame non è infatti soltanto ciò che è formalizzato e che osserviamo. La soggettività di ognuno, i propri legami di origine, quelli che quotidianamente sperimentiamo nella nostra vita, entrano con forza nella relazione con l’altro; si scontrano o si incontrano con le esperienze dell’altro, con altri legami, con altri significati, con altre abitudini, con altre storie. Due persone che si incontrano sono due mondi che si incontrano e che devono imparare a contrattare gli spazi, i tempi, i significati, le esigenze, i progetti (…).

 

«"Basta! La nostra storia è finita, ognuno per la sua strada, posso vivere senza di te. Anzi, senza di te è meglio!". Chi è questo estraneo che abbiamo accanto? La solitudine si impossessa di noi e soffriamo, perché speravamo che lui o lei potessero essere il nostro complemento. Una verità che può consolare chi vive il dramma di sentirsi abbandonato, pur avendo un partner, un amico, un genitore, è sapere che sentirsi soli è sintomo di salute. Se imparo a stare da solo, vuol dire che sono in grado di differenziarmi, e ho dei confini. Questi mi permettono di sapere che, anche se sono stato abbandonato e l’altro non mi sostiene, io me la cavo lo stesso.

 

«È in questo momento che possiamo decidere di affrontare la lotta o rinunciare. Se decidiamo che il dolore che stiamo provando è colpa dell’altro, possiamo chiamare subito l’avvocato, nel caso si tratti del nostro coniuge, e avviare le pratiche del divorzio. Se decidiamo, invece, di prendere contatto con le nostre debolezze, con le mancanze che vorremmo che l’altro colmasse, con le parti di noi che non conosciamo e che vorremmo potere tenere nascoste tanto agli altri che a noi stessi, possiamo tentare di dare una chance di crescita tanto a noi quanto all’altro (cf. Cavaleri 2007). Leggendo i legami in tal senso, diventa chiaro come la separazione dall’altro o la sua perdita luttuosa possano costituire momenti che assumono significati molteplici.

 

«La perdita dell’altro ci pone di fronte alla necessità di riprogettare la nostra vita. Quello che si era raggiunto, sia che fosse vissuto con pienezza sia che fosse motivo di frustrazione, può essere idealizzato in seguito all’evento della perdita. Ciò può accadere perché spesso rimaniamo ancorati a quello che “eravamo” e ripensare un altro percorso di vita può risultare complicato. Impossibile dire qui quante dinamiche possono attivarsi in seguito a una separazione o a un lutto. Ci limiteremo a sottolineare quanto prima espresso a proposito dei legami e della nostra capacità di rimanere in contatto con noi stessi, pur sentendoci ugualmente pieni nel vincolo affettivo.

 

«È naturale che, quando l’altro va via, porta con sé delle parti di noi. Ognuno, nell’incontrarsi con l’altro, crea con esso una relazione “unica”. Tale relazione diventa quasi una terza entità: ci sono “io”, ci sei “tu” e c’è la “relazione” che insieme creiamo, quella cui prima abbiamo fatto riferimento parlando del “tra”. Nella perdita questo “tra” viene meno, continuando a esistere però nei ricordi e in quelle parti di noi che grazie ad esso sono cresciute. Nella perdita viviamo un duplice lutto: quello della presenza dell’altro e quello delle parti di noi che in quella relazione vivevano.

 

«Entrare in contatto con il proprio vuoto può essere motivo di depressione, ma anche motivo di crescita. Nell’elaborare la separazione o il lutto, tenendo conto delle dovute distinzioni, dovremmo “salutare” colui o colei che se ne è andato, lasciando che vada via, e “salutare” le parti di noi che quella relazione attivava. Dovremmo poi investire la nostra energia per disporci più benevolmente nei confronti del domani che potrà venire. E se la separazione è l’evento che ci pone di fronte ai nostri limiti, allora forse essa sarà il punto di partenza per avviare un percorso di crescita individuale che ci consenta di saper vivere con noi stessi, anche da soli. Questa potrebbe essere un’ottima possibilità per arrivare con più consapevolezza a un prossimo incontro, dove la ricerca dell’altro non passa più attraverso il bisogno, ma attraverso la condivisione.

"Vivi le tue relazioni sapendo che l’altro è come tu lo hai cercato. Ringrazialo se ti delude: ti offre la possibilità di imboccare la strada migliore per ritrovare te stesso" (Salonia 2004, p. 22)».

 

 
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