Tra carriera e famiglia

Michele e Chiara Colucci: lui noto slavofilo, lei archeologa. Una storia comune di impegno incessante per costruire un amore vero

La cappella dell'università La Sapienza di Roma era superaffollata, e la gente ha indugiato a lungo sulle larghe scalinate esterne baciate dal sole al termine del funerale. Ognuno aveva qualcosa da dire sull'amico, sul professore, sul collega: Michele Colucci. Anch'io ero presente quel giorno. Era forse la seconda volta che mi trovavo in una chiesa insieme a Chiara, mia sorella, e a Michele. La prima era stata il giorno delle loro nozze, in una splendida antica cappella romanica, dove Michele, pur agnostico, aveva acconsentito a unirsi a Chiara con il sacramento del matrimonio.

«Frequentavamo il primo anno di Lettere quando un amico comune ci ha presentati – mi spiega Chiara –. Poi ci siamo laureati e sposati». La loro convivenza iniziava semplice, a Varsavia, dove si trasferirono perché lui aveva accettato un posto di insegnamento. «Avevamo ambedue un forte interesse per le scienze umanistiche, anche se poi le nostre strade si sono divise, perché io mi ero specializzata in arte orientale e archeologia, e lui in lingua e letteratura russa. Il fatto che le nostre carriere ci costringessero spesso a separarci, ad esempio quando le missioni di scavo mi portavano in paesi lontani, tutto sommato era un bene perché la lontananza ci permetteva di riflettere su di noi, ci faceva sentire di più il desiderio e la gioia di stare vicini».

Chiara era attratta dall'intelligenza e dal temperamento di Michele. «In tutti gli anni in cui siamo rimasti insieme ho avuto modo di scoprire sempre più la sua grande onestà – Chiara racconta –: onestà professionale e personale. Era generoso, anche se talvolta mi pareva che la sua generosità non fosse ben indirizzata. Ma questa sua capacità di comunicare, di essere presente, di essere sempre insieme e vicino agli altri mi attirava». Nel frattempo era nato il figlio Francesco. Per anni la vita famigliare continuò serena e senza grossi intoppi, nonostante le difficoltà normali di ogni coppia. «Finché la nostra vita è stata spezzata in due da un grave incidente automobilistico – Chiara continua –. In coma per vari giorni, mi ero poi rimessa del tutto. Michele, invece, aveva subìto fratture tali da costringerlo a letto per mesi, subendo diverse operazioni. Ha ripreso a camminare, ma zoppicando e faticosamente. Un periodo di prova, per entrambi, indubbiamente. La tensione ci rendeva più difficile il sopportarci a vicenda. Indiscutibilmente, per sfuggire alla dura realtà quotidiana, ci allontanavamo».

Ma non finirono lì le traversie. Chiara ebbe un infarto da stress. «Ero ancora giovane, non potevano spiegarlo altrimenti». Michele si sentì in qualche modo responsabile di tale situazione. «Questa crisi è proseguita per qualche tempo. Tuttavia è stato l'amore vero che provavamo l'uno per l'altro che ci ha aiutato a non separarci. Desideravamo che l'altro ottenesse il meglio per lui, anche se a volte non indovinavamo che cosa fosse! Michele, per esempio, pensava che la felicità per me consistesse negli scavi archeologici, mentre per me non era una cosa poi così vitale. E spesso e volentieri anch'io pensavo che per lui fosse importante qualche altra cosa, che in realtà non lo era». Continua Chiara: «Siamo così riusciti a rimanere insieme, e la vita è andata avanti con le sue gioie ed i suoi dolori. Michele si è buttato a capofitto nel lavoro, che comportava lunghe ore spese a leggere e scrivere. Aveva sempre avuto un gran desiderio di scrivere poesie, e in questo periodo iniziò a farlo. Io, invece, mi dedicavo a mio figlio. Poteva sembrare che conducessimo due vite separate; eppure, anche quando Michele sembrava ritirarsi nel suo mondo, ritornava sempre da me. Per usareun'immagine, era come se io fossi il porto in cui si rifugiava quando doveva riposare e riprendere forze ed energie. Questa era per me una grande gioia».

Ha sofferto il vostro matrimonio per il fatto che Michele fosse laico, dichiaratosi agnostico, mentre tu avevi una fede profonda? Quando le ho rivolto questa domanda, Chiara si è fermata un attimo, poi mi ha risposto così: «Se dicessi che non è stato difficile, direi una falsità, anche se mio marito mi ha sempre incoraggiata a restare fedele alle mie convinzioni. A volte ho avuto l'impressione che fosse orgoglioso di mostrare ai suoi amici una moglie intellettuale, colta, donna attiva e nello stesso tempo cattolica convinta. Il mio atteggiamento verso la vita gli andava bene, e ha sempre sostenuto che tra le varie chiese "possibili", se fosse stato credente avrebbe scelto quella cattolica. Il suo più grande amico era d'altronde un cattolico praticante, un uomo di grande fede». Chiara è convinta che la fede, maturata negli anni, l'abbia fortemente aiutata. «La mia famiglia di origine era da anni legata al Movimento dei focolari, cosicché ne conobbi la spiritualità da giovane. L'ho sempre considerata come una grande speranza per il mondo. Mi aiutava a pensare che, vivendo semplicemente il vangelo, potevo ottenere un profondo livello di spiritualità, ciò quello a cui nel profondo aspiravo. Ho avuto i miei alti e bassi, ma ricordo la gioia profonda di sentirmi vicina a Dio; gioia sperimentata anche nei momenti più difficili e tristi. Non una gioia mossa da sentimenti ed emozioni, ma quella che matura con gli anni».

E continua: «Mi pare di aver capito Gesù crocifisso e abbandonato, e di essere stata capace di abbracciarlo nel dolore che ci colse pochi anni fa, quando Michele si ammalò: la diagnosi era infausta, ma la malattia all'inizio non pareva così grave. Invece si rivelò lunga, dolorosa e, alla fine, mortale». Chiara ricorda di aver intuito un giorno che «se Dio permetteva quella prova, mi avrebbe anche dato la forza per superarla». Una prova effettivamente terribile: per un anno Michele è rimasto costretto a letto con dolori spaventosi. «Michele ha sofferto con grande coraggio. Alla fine era ridotto a pelle e ossa: ricordo un giorno quando, mentre lo stavo lavando, ho guardato la sua faccia sfigurata, le sue membra indebolite… Ho inghiottito le lacrime. Mi sembrava proprio di lavare il corpo del Cristo crocifisso che amavo. Un momento di grande intensità». Poi la morte dell'amato Michele. «Negli ultimi mesi – racconta sempre la moglie – siamo stati veramente molto vicini. Abbiamo capito che la nostra era una vita di unione, di comunione, che l'affetto fra di noi era maturato, diventando un amore vero. Non era infatti più legato solamente a quegli elementi che lo avevano alimentato fino allora: la passione, nostro figlio, il lavoro, le ambizioni. Il nostro era diventato un amore profondo. Tutte le sere, prima di dormire, Michele mi prendeva la mano e mi ringraziava. So però che non mi diceva grazie soltanto perché durante la giornata mi ero spesa per lui. Era grato per l'amore che eravamo riusciti a costruire nell'arco di una vita».

«Ora desidero testimoniare – conclude Chiara – che la comunione raggiunta fra noi è stata quasi un miracolo. Per lungo tempo ho pregato intensamente per la sua guarigione; ma alla fine ho capito che proprio questa unione profonda era il dono che Dio voleva riservarci. Negli ultimi tempi ho ripensato a quando ero ragazza, e mi sentivo interiormente divisa tra il desiderio di donarmi a Dio e l'attrazione per il matrimonio. Ora non ho più dubbi. Quando mi sedevo accanto al letto di mio marito, anche con Francesco, sentivo con certezza che questa era la strada che Dio aveva scelto per me nel viaggio verso la santità».

Edicola Digitale Città Nuova - Reader Scarica l'app
Simple Share Buttons