Totò, l’uomo e la maschera
50 anni fa a 69 anni, il 15 aprile, moriva Totò – al secolo Antonio De Curtis, napoletanissimo principe bizantino –, nella sua casa romana di via Monti Parioli, dove viveva con la figlia Liliana e la compagna Franca Faldini. Ricordando la scomparsa del “principe della risata”, com’era chiamato, vien da pensare subito ai suoi funerali, surreali, unici. Coinvolsero due città. A Roma la salma fu vegliata per due giorni dalle star dello spettacolo; poi duemila persone si raccolsero a Sant’Eugenio, dove il celebrante si limitò a una benedizione, data la convivenza more uxorio fra Totò e la Faldini (i tempi erano quelli): sulla bara, la storica bombetta alla Charlot dei lontani esordi. A Napoli il secondo funerale, col feretro scortato da 30 auto, saracinesche calate e il rito a Sant’Eligio presenziato da 250 mila persone, fra corone e stendardi. Infine le terze esequie al Rione Sanità (dove Totò era nato, il 15 febbraio 1898) organizzate dal capoguappo per una folla pari a quella già citata, pure se la bara qui era vuota. Un evento del genere (diffuso dai media in Italia e nel mondo) dice molto non solo sulla napoletanità di Totò, stemma e gloria con Eduardo De Filippo di questa cultura insieme nobile e popolare, ma anche sulla sua grandezza artistica e la sua sconfinata celebrità. Si fa presto a dire comico, oggi ce n’è un profluvio. Totò è stato e rimane forse il più grande attore comico dello spettacolo italiano del ’900. È un personaggio che non tramonta, continua a far ridere con la sua maschera e la sua mimica marionettistica. Gli italiani un po’ si identificano in lui, vi si ispirano in certo modo, quando ripetono le sue storiche battute: «A prescindere»; «Siamo uomini o caporali?»; «Signori si nasce e io modestamente lo nacqui»; «Io ho girato il mondo, ho fatto il militare a Cuneo»…
Certo, del Totò più vero, originario, rimangono solo articoli e foto ingiallite sulla stampa d’epoca. È l’animale da palcoscenico, che lui preferiva e in cui si riconosceva. Negli anni ’20 debuttò al varieté nel mitico Ambra-Jovinelli; poi l’avanspettacolo, le macchiette memorabili tipo Il bel Ciccillo e, negli anni ’40-’50, la rivista. Titoli scolpiti nella storia del teatro leggero: Quando meno te l’aspetti, Che ti sei messo in testa?, Orlando curioso, tutti successi fino A prescindere, ’56, quando in tournée Totò si scoprì quasi cieco e chiuse col teatro. In questa carriera travolgente si è formato il guitto, l’attore comico completo e infine il grande artista, col suo carisma gigantesco, la simpatia, il sorriso frizzante, gli occhi roteanti, il corpo snodato, la comicità paradossale, quel non sense in anticipo sul demenziale di oggi.
Una cifra surreale che però negli anni della guerra non gli aveva impedito di mettere alla berlina dal palco Hitler e Mussolini, pagandone le conseguenze. Poi il cinema, che lo ha consacrato fra le masse, dal debutto nel ’37 con Fermo con le mani di Gero Zambuto (un mezzo fiasco) al crescente consenso nei ’40 con chicche da cineteca come San Giovanni decollato e L’allegro fantasma, diretti da Palermi. Ma è nei ’50 e ’60 che al cinema esplode la Totò-mania, con quasi cento film che creano il comico nazionale, adottato dagli italiani. Tanti sono filmetti, lo diceva pure lui, ma ci sono capolavori come Guardie e ladri di Monicelli (’51) e L’oro di Napoli di De Sica (’54). Nella recitazione al cinema Totò alterna toni e registri vari – farsa, satira, ironia, grottesco, micromimica, commedia – senza staccarsi tanto dal teatro perché pure sul set improvvisa molto.
Ma il suo genio e la sua grande umanità non si discutono e pure il cinema d’autore si accorge di lui, anche in ruoli drammatici. Come in Uccellacci e uccellini di Pier Paolo Pasolini, 1966. In tv è ospite d’onore solo due volte, al Musichiere nel ’58 e a Studio Uno nel ’65. Una serie di telefilm, TuttoTotò, ideata dalla sua spalla storica, Mario Castellani, andò in onda alla fine dei ’60. Secondo noi è proprio l’attore totale, che andrebbe ricordato in quest’anno di Totò, l’interprete comico-drammatico, il pagliaccio alla Leoncavallo, col cuore spezzato. In realtà Totò conobbe il dolore: figlio illegittimo riconosciuto tardi dal padre, per anni in bolletta ad elemosinare scritture, spesso stroncato dalla critica e presto malato agli occhi fino alla cecità quasi totale.
Da qui la sua mania della nobiltà e l’enorme bisogno d’affetto che lo rese anche sensuale (ma mai volgare) e vulnerabile all’eterno femminino. Il primo grande amore, Liliana Castagna, si era suicidata. Dalla seconda unione, con Diana Rogliani, nacque Liliana (nome non casuale!). La terza compagna, Franca Faldini, fu accanto a Totò morente e ne raccolse queste parole: «Ricordatevi che sono cattolico apostolico romano». Chiudiamo così per completare il ritratto di una maschera che era anche un uomo complesso, contraddittorio e ricco dentro.