Toto Cutugno, un italiano vero

Se n’è andato a 80 anni appena compiuti uno dei simboli più popolari e universalmente riconosciuti del pop all’italiana. Un lungo percorso musicale, per un personaggio amatissimo dal pubblico, un po’ meno dalla critica che solo a fine carriera ne ha riconosciuto il talento
Cutugno
Foto Fabio Ferrari/LaPresse

Forse, più che il più vero degli italiani, Toto Cutugno è stato il più vero dei sanremesi, l’incarnazione perfetta di un Festival che non c’è più, ma che era costruito ad immagine e somiglianza – e talvolta anche a deformanza – del Paese reale che gli girava intorno.

Salvatore Cutugno, detto Toto, era nato nell’estate di 80 anni fa in quel di Fosdinovo, nella Lunigiana, ma di fatto era cresciuto a La Spezia. Ha legato il suo nome a L’italiano – uno dei suoi tanti pezzi sanremesi – divenuta negli anni un vero e proprio inno, soprattutto per gli italiani all’estero, nonché il suo maggior successo.

Ma Cutugno è stato e ha fatto anche molto altro. A parte i suoi 15 Festival sanremesi (una sola vittoria, nell’80 con Solo noi), il trionfo all’Eurovision Song Contst del ’90 (con un brano che voleva essere un inno alla fraternità europea), e poi autore richiestissimo per molti colleghi: da quel Celentano cui era affratellato da una vocalità molto simile, a Johnny Hallyday, da Miguel Bosè a Fausto Leali, da Luis Miguel ai Ricchi & Poveri. Tanta tivù anche, dalle due edizioni di Domenica in nella seconda metà degli ’80, a Piacere Rai Uno, da i Fatti vostri a Ora o mai più, la sua ultima avventura televisiva, nel 2019.

Una carriera notevole, da vera star del melodismo italico da esportazione, soprattutto nell’est Europa e in America Latina: mercati di serie B, secondo i detrattori, ma che allora come oggi garantiscono carriere, affetti, e gratificazioni di gran lusso.

Di una cosa soprattutto bisogna dargli atto, un talento che il Nostro ha sempre rivendicato con grande orgoglio: non è facile scrivere decine di successi usando sempre gli stessi semplicissimi accordi e senza mai fare il verso a se stessi. Ma lui, del resto, era così, almeno per quel che l’ho conosciuto: un uomo semplice, di poche parole, con quello sguardo sempre un po’ ombroso da risultare quasi scorbutico. Comprensibilmente in fondo, giacché a lui i giornalisti musicali erano sempre piaciuti poco: troppo spocchiosi, troppo innamorati dei cantautori impegnati per amare davvero un artigiano della melodia facile-facile come lui. Epperò pronti a vidimarne la grandezza non appena la cronaca cede spazio alla Storia.

A conti fatti aveva ragione lui, e non solo per gli oltre cento milioni di copie vendute in quasi 60 anni di carriera, trapuntata da 27 album, più uno inciso con gli Albatros, la sua prima band. E pochi sanno che il Nostro era anche un buon polistrumentista: oltre che col pianoforte se la cavava anche con la chitarra, l’oboe e il sax; così come pochi sanno che perfino un rocker duro e puro come Iggy Pop volle includere un suo brano tradotto in uno dei suoi dischi.

Un tumore alla prostata l’ha domato dopo una lunga battaglia, quando ormai il suo nome era già un’imprescindibile voce enciclopedica della scena musicale italiana del Novecento. E sì, erano solo canzonette, ma quanto – e a quanti – piacevano.

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