Torre del Greco, tra lave e coralli
L’Araba Fenice, il favoloso uccello sacro che si diceva rinascesse dalle proprie ceneri, divenuto emblema di chi sa rialzarsi da qualsiasi avversità, compare a buon diritto – col motto “Post fata resurgo” (Dopo la morte mi rialzo) – sullo stemma di Torre del Greco, popolosa città vesuviana ripetutamente distrutta, nel corso della sua storia bimillenaria, dalle eruzioni del vulcano. La prima volta in epoca storica fu quando questo sobborgo residenziale dell’antica Ercolano ne condivise la sorte, insieme a Pompei, Oplonti e Stabia.
Qui successivamente sorsero i villaggi di Sora e Calastro (oggi due contrade della città moderna) che alla fine dell’VIII secolo si fusero dando origine a Torre Ottava, a indicare con ogni probabilità la struttura costiera di avvistamento voluta da Federico II di Svevia, distante 8 miglia da Napoli. E il cambio del toponimo in “Torre del Greco”, attestato in un documento del 1324? Sembra successivo all’introduzione nelle colture locali di un vitigno proveniente dalla Grecia che forniva un ottimo vino.
Ma bisognava sempre fare i conti col Vesuvio, che dal 79 d.C. aveva ripreso l’attività alla grande: tristemente celebri sono le eruzioni del 1631, del 1737 e ancor più quella del 1794, che seppellì il centro storico di Torre del Greco sotto quasi dieci metri di lava. Anche stavolta i torresi, la cui capacità di risollevarsi ogni volta dalle più gravi difficoltà era proverbiale, ricostruirono la loro città ad un livello più alto. Testimonianza impressionante di quel catastrofico evento è il campanile settecentesco di piazza Santa Croce: mentre l’adiacente chiesa madre venne travolta dalla colata lavica (l’attuale basilica è una ricostruzione successiva), la torre campanaria resistette, emergendo però solo con i due ordini superiori: unico caso oggi di un campanile meno alto della chiesa alla quale appartiene.
Al tempo di Murat terza città del Regno di Napoli insieme alla vicina Portici, Torre del Greco ebbe a soffrire una nuova disastrosa eruzione nel 1861, preceduta da un forte terremoto e seguita da un imponente sollevamento del suolo. Ma torniamo al 1794. Da qualche anno l’area del centro storico su cui insiste Santa Croce (la parrocchia dell’apostolo dei torresi, san Vincenzo Romano, ivi sepolto) rientra in un progetto di valorizzazione, promosso dal Gruppo archeologico torrese “Col. Giuseppe Novi”, dei cosiddetti “percorsi di lava”, ossia le numerose cavità ottenute nella colata lavica per prelevare materiale a fini edili e utilizzati come rifugi antiaerei durante la Seconda guerra mondiale; cunicoli ora percorribili insieme alla parte sepolta del campanile.
Da secoli però, prima di questa iniziativa, Torre del Greco era famosa per la pesca e la lavorazione del corallo del Mediterraneo, quel Corallium rubrum per lungo tempo considerato appartenente al mondo vegetale (così lo ritenevano Plinio il Vecchio e Ovidio) e solo nel 1700 identificato nella sua natura animale: un celenterato sessile che prospera in colonie formate da minuscoli polipi e – a differenza delle barriere coralline dei mari tropicali, con le quali non va confuso – non è a rischio estinzione.
Già a partire dal 1500 le flotte torresi – le “coralline” – si spingevano nel Mediterraneo alla ricerca dell’”oro rosso” là dove sapevano di trovarlo: tra Corsica, Sardegna, Sicilia e al largo delle coste nordafricane, sfidando i pericoli del mare e la minaccia dei corsari. Questa redditizia attività subì un duro colpo quando l’eruzione del 1631 danneggiò Torre del Greco: la ripresa entro pochi anni, tanto che i pescatori vesuviani acquistarono fama di migliori e più coraggiosi. Nel 1639 venne istituito anche un apposito ente assistenziale, il Monte dei Marinai, al quale seguì nel 1790 il Codice Corallino: regolamento economico-legale per la pesca de’ coralli che si fa da’ marinari di Torre del Greco: giuridicamente il codice più completo del settore che esplicita competenze e professionalità affinché la pesca sia efficiente e produttiva.
Divenuta ormai “capitale del corallo”, la città ai piedi del Vesuvio aggiunse alla pesca anche la lavorazione e commercializzazione del prodotto, dando vita ad un’economia a ciclo completo che causò la graduale dismissione di altri centri come Marsiglia e Livorno, dediti alla medesima attività. Torre del Greco si specializzò inoltre nella lavorazione e incisione di particolari tipi di conchiglie, grazie alle quali si affinò e giunse a perfezione l’antica arte del cammeo.
Nel 1856 i Borbone, tornati alla guida del regno, emanarono un nuovo Regolamento per la pesca corallina, e dopo l’unità d’Italia nel convento barocco annesso alla chiesa del Carmine – una delle poche strutture sopravvissute alle devastanti eruzioni del 1737 e 1794 – nacque una Scuola per le nuove leve dedite a questo tipo di artigianato, oggi Istituto statale d’arte “Francesco Degni”, che dal 1933 ospita un proprio museo del corallo, con pregevoli lavori realizzati da studenti e docenti, nonché provenienti da donazioni e acquisti: opere in corallo, madreperla, argento, tartaruga, ardesia, pietra lavica, e numerosi cammei. Un altro museo del genere è quello, privato, della collezione Liverino.
Dal 1889 in poi, alla lavorazione del Corallium rubrum si è aggiunta quella del corallo pescato nei Mari del Giappone: di colore più pallido dell’altro, fornisce un materiale di qualità e di grande bellezza, particolarmente adatto alla lavorazione incisa e rinomato nell’ambito dell’alta gioielleria per la preziosità e raffinatezza della sua produzione. A questo mestiere antico che ha creato oggetti d’arte apprezzati in tutto il mondo, i valenti artigiani torresi hanno aggiunto anche la lavorazione dell’oro, ritagliandosi un posto di rilievo tra gli orafi italiani.
Oggi questo settore del corallo, cammei e materie affini è tutelato e promosso dall’Assocoral, associazione nazionale che si occupa, fra l’altro, della corretta gestione della pesca del rubrum per tutti i Paesi del bacino mediterraneo, conciliando rispetto dell’habitat marino e mantenimento dei livelli occupazionali di un artigianato che rappresenta il passato e al tempo stesso il futuro di un’intera comunità. A quando il suo riconoscimento Unesco a patrimonio culturale immateriale dell’umanità?
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