È tornato Andrea Chénier

Il Teatro dell’Opera di Roma, dopo 24 anni, rimette in scena quello che era stato un antico trionfo alla Scala

Oggi non sono più di moda. Mi riferisco alle opere di quella che un tempo si chiamava la “giovane scuola”, cioè i musicisti dopo Verdi: Puccini, Mascagni, Cilea, Leoncavallo, Franchetti e Giordano. In pieno repertorio fino ai primi anni Sessanta del ‘900, prediletti da ugole famose, oggi – tranne il fuoriclasse Puccini  e  Cavalleria e Pagliacci – molti di questi lavori sono quasi scomparsi dalle scene.  Colpa (o merito) delle Rénaissances varie di Verdi, Rossini Bellini e Donizetti? E dell’approccio terribilmente “veristico” degli interpreti (singhiozzi, grida, eccetera) che non piacciono più? Un pò di tutto.

Bene allora ha fatto il Teatro dell’Opera di Roma, dopo 24 anni, a rimettere in scena Andrea Chénier di Umberto Giordano, un trionfo alla Scala nell’anno 1896, lo stesso del trionfo della Bohème pucciniana. “Dramma di ambiente storico” in quattro quadri di Luigi Illica, librettista amato anche  da Puccini, risponde al clima di fine secolo: rivisitazione idealizzata (fino ad un certo punto) della Rivoluzione francese con il suo inno alla libertà contro l’aristocrazia (il personaggio del servo Gérard trasformato in rivoluzionario puro e poi le citazioni della Marsigliese e così  via: insomma, una storia alla Giosue  Carducci), una punta di socialismo (il popolo), l’anticlericalismo (vecchio tema di Verdi), il sentimento amoroso capace di far “morire insieme” gli  innamorati, cioè il poeta Chénier e  Maddalena (antico topos romantico). Non importa se Chénier e Maddalena non si sono mai incontrati nella realtà, il melodramma non va troppo per il sottile quanto a serietà storica (come le fiction attuali), perché il suo scopo è un altro: grandi passioni sullo sfondo di grandi o piccoli eventi storici (si pensi alla pucciniana Tosca, nella Roma postnapoleonica).

Giordano, pugliese che ha saputo farsi strada, compone un lavoro che risulta bello, gradevole e ispirato. Le citazioni di danza settecentesca creano all’inizio un clima galante, ma poi nella seconda parte dell’opera il dramma si fa serio e qui l’orchestra si squarcia in esplosioni che fanno oscillare il lavoro – in modo equilibrato – fra levità e cupezza. Ma Giordano non è un autore verista, non indulge ad effetti o effettacci per strappare l’applauso e sottolineare con furore i momenti cruciali (questo aspetto un pò rimane nella Tosca pucciniana o nei Pagliacci di Leoncavallo), non usa i leit-motiv per costruire momenti di richiamo emotivo. Giordano è sottile, gentile. Filo conduttore è infatti una vena lirica, che si rivela in una ispirazione costante, con momenti poetici come l’”improvviso” “Un dì all’azzurro spazio” o l’aria “Come un bel dì di maggio”: nostalgia, dolore, amore vengono cantati in melodie brevi, alla francese,  restano impressi nella memoria. Sono manifestazioni del binomio amore- morte che è il vero contenuto dell’opera. Come nella verdiana Aida infatti i due amanti morranno insieme: “Nell’ora che si muore/eterni diventiamo!”, cantano nei versi   fin troppo preziosi di Illica.

Marco Bellocchio, nel suo approccio umile all’opera che ha amato fin da piccolo, non ha intelligentemente sbavato o surclassato le didascalie e i versi del libretto, come oggi diversi registi fanno. Ma, convinto che è la musica la proprietaria esclusiva dell’opera, ha aiutato i cantanti-attori e le masse a usare meglio il corpo per esprimere il dramma. E se nella prima parte le scene di Gianni Carluccio hanno evocato misuratamente il Settecento di parrucche e gavotte, nella seconda le scene glaciali di certa arte dittatoriale novecentesca hanno reso con efficacia il gelo della rivoluzione che “divora i suoi figli” nel regime del Terrore. Fino al grande velario finale con le foto dei morti dell’ultima guerra per creare una nuova patria, attualizzando così l’opera.

Dal punto di vista musicale, la direzione di Roberto Abbado ha funzionato, perché l’orchestra lo ha seguito evocando sonorità leggiadre  e  cupe discese timbriche, accompagnando  le efffusioni liriche con misura. Così Gregory Kunde si è mostrato uno Chénier garbato nel gesto e slanciato nel canto, perfetto nelle romanze come squillo e soavità, insieme alla Maddalena di Maria Josè Siri, di forte personalità. Ma bisogna dire che lo splendido Gérard di Roberto Frontali non è stato da meno come la grande Elena Zilio nella sua piccola parte.

L’opera di Giordano, in questo equilibrato incontro regia- musica, è come resuscitata per quel valore che è, ed è augurabile che l’allestimento coprodotto con La Fenice di Venezia giri il mondo.

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