Torna il lavoro con Trump?
Il neo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, durante la lunga e vittoriosa campagna elettorale ha ipotizzato non solo l’uscita degli Usa dall’Organizzazione mondiale del commercio (Wto). La nuova amministrazione sembra allergica anche agli accordi multilaterali preferendo la trattativa con i singoli Paesi fino a minacciare l’introduzione di dazi e barriere tariffarie per salvaguardare i posti di lavoro nella Nazione che ha delocalizzato all’estero, negli ultimi decenni, notevoli settori della propria manifattura.
Certe misure protezionistiche, rivolte in gran parte al grande competitore cinese, sembrano fuori da tempo anche perché richiedono una qualche pianificazione centrale e un costoso piano di investimenti pubblici necessario per dotare le nuove produzioni di adeguate infrastrutture.
Nonostante lo scetticismo, sembra che le pressioni del nuovo inquilino della Casa Bianca si stiano rivelando efficaci. La Ford, ad esempio, ha detto di aver deciso in autonomia, ma ha annunciato, ad inizio 2017, di aver annullato l’investimento di 1,6 miliardi di dollari destinati all’apertura di uno stabilimento in Messico per destinare meno della metà della cifra (700 milioni di dollari) al sito produttivo che la casa automobilistica ha ancora in Michigan. Anche Fiat Chrysler Automobiles, prima che scoppiasse il nuovo diesel gate, aveva deciso di investire un miliardo di dollari per potenziare la produzione di automobili negli Stati Uniti.
Di fronte a tali fatti insorge una semplice domanda: Bastava così poco per risolvere il problema delle delocalizzazioni? E l’Italia non può fare altrettanto solo perché troppo debole?
Qui Le risposte di Ferrucci e Gesualdi.