Torino e il futuro della nostra industria
A Torino nel 2020, cioè nel pieno dell’epidemia di Covid 19, la Pastorale sociale e del lavoro del Piemonte ha chiesto di smettere di investire in armi davanti alla tragedia delle vittime dovute anche ai tagli inferti agli investimenti destinati al Servizio Sanitario nazionale.
In una lettera aperta, la realtà che esprime tutte le diocesi della Regione non ha usato mezze parole: «Diciamo no a lavori per la guerra, no alla produzione e allestimento degli F35, costosissimo progetto di aerei che possono trasportare bombe nucleari. Quanti posti letto si potrebbero ottenere con il costo anche di un solo aereo?».
Nella stessa città, simbolo, con Milano e Genova, del triangolo industriale italiano degli anni ’70, la società Leonardo ha invece, negli ultimi anni, presentato un progetto di riconversione urbana di un’area da destinare al polo tecnologico delle armi che riceverà le risorse del fondo sovranazionale della Nato. C’è l’accordo di Regione, Comune e quello del Politecnico che, come molte altre realtà accademiche, ha stretti rapporti nel campo della ricerca con Leonardo, società già nota con il nome di Finmeccanica, controllata dallo Stato.
Le direttive strategiche sono quelle definite nell’ultimo vertice Nato di Madrid di fine giugno, un’assise decisiva per il futuro dei Paesi dell’Alleanza atlantica che è stata poco presente sui media.
Sembra come di assistere ad ciclo storico che si ripete se solo si tiene a mente che Torino, quasi un secolo addietro, è stata il luogo in cui la dinastia Agnelli si è imposta come principale gruppo industriale (assieme ad altri attori nazionali come Ansaldo, Edison, Pirelli, ecc.) grazie alle commesse e ai sovra profitti della cosiddetta “grande guerra”. Una posizione di predominio che si è consolidata nelle commesse del Ventennio che preparò e condusse l’Italia verso il secondo conflitto mondiale.
La macchina del consenso comportò, tra l’altro, il passaggio de La Stampa, originariamente controllata dal liberale Frassati, nelle mani della Fiat. Il quotidiano è ancora oggi di proprietà di Gedi sotto il controllo di Exor, finanziaria degli eredi Agnelli, mentre l’attività principale nel settore auto è ormai affidata a Stellantis, società dove il capitale prevalente è della francese Psa che nomina l’amministratore delegato Tavares.
Il progressivo arretramento del settore auto dell’ex gruppo Fiat è all’origine di crisi industriali emerse in altre regioni come è il caso della Gkn in Toscana, fabbrica di semiassi per auto ceduta dagli Agnelli ad una finanziaria angloamericana.
Torino ha ultimamente perso anche la possibilità, a favore del Veneto, che la statunitense Intel aprisse nel suo territorio la giga factory di microprocessori indispensabili per il settore metalmeccanico. Allo stesso tempo è stato particolarmente doloroso il calvario vissuto dai dipendenti licenziati dalla Embraco di Riva a Chieri, vicino Torino, controllata da società statunitensi e brasiliane.
Sono tutti elementi che confermano l’analisi fatta, a suo tempo, dal sociologo torinese Luciano Gallino circa la scomparsa dell’Italia industriale intesa come scelta deliberata e illogica di dismettere settori strategici, generatori di ricerca tecnologica e occupazione, fino a diventare una colonia di conto terzismo o di partner di secondo livello esposta alla delocalizzazione decisa da capitali che godono di grande mobilità.
Ad ogni modo la scelta di orientare una parte sempre più importante della nostra industria nel settore bellico o, come si dice, della difesa, non si può giustificare con il luogo comune del mantenimento dei livelli occupazionali. Gianni Alioti, a lungo responsabile dell’ufficio internazionale della Fim Cisl, ha dimostrato ad esempio, con uno studio ventennale sul settore aereo, che l’area destinata all’aviazione civile ha prodotto molti più posti di lavoro di quella militare.
In un’intervista rilasciata a Città Nuova dall’ex presidente di Confindustria Genova, Stefano Zara, è emersa una pagina critica poco conosciuta circa la progressiva dismissione, negli ultimi 20 anni, di aziende di eccellenza nell’area ligure, sotto controllo statale, a favore di filiere produttive legate al settore bellico. Una strategia regressiva che ha avuto un impatto molto negativo sull’economia genovese.
Una scelta sostenuta dai consigli della società Mc Kinsey, il colosso della consulenza che attualmente, ad esempio, supporta l’Arabia Saudita nella messa in pratica della Saudi vision 2030.
D’altra parte, il ragionamento più comune tra chi, come rinomati centri di ricerca, sostiene la necessità da parte dell’Italia di essere presente e attiva nel campo dei sistemi degli armamenti si basa sull’assioma che, in un modo o nell’altro, anche senza la nostra partecipazione, le guerre si continuano a fare perché il mondo è fatto così e la nostra assenza sul mercato verrebbe comunque coperta da altri soggetti che potranno esercitare un ruolo geopolitico a noi precluso.
Lo dice in maniera molto efficace il saggista Federico Rampini quando sottolinea, con decisione, nei suoi scritti che l’Europa non può credere di poter esercitare un ruolo di rilievo nel contesto dello scontro inevitabile tra Occidente e Usa rimanendo una potenza “erbivora”, senza cioè armarsi in maniera adeguata.
Anche Rampini riconosce la necessità auspicabile di aumentare la spesa sociale, ma sottolinea la necessità per l’Europa e il nostro Paese di investire negli armamenti perché non è detto che la Cina non sia interessata ad un predominio militare ma solo di carattere commerciale. Anche alla vigilia del primo conflitto mondiale, ricorda il prolifico saggista, si credeva che Germania e Gran Bretagna non sarebbero mai entrati in conflitto per il flusso continuo delle merci tra le due nazioni e invece…
La decisione di Putin di invadere l’Ucraina ci ha posto davanti ad uno scenario dove non sembrano esistere esistono più dubbi alla necessità del riarmo.
In tale quadro si colloca l’acquisto, da parte del nostro Paese dei caccia F35 dalla Lockheed Martin che offre a Leonardo ex Finmeccanica una collaborazione di partner di secondo livello, cioè non di accesso a tutta la tecnologia, presentata come occasione di partecipare ad un grande progetto internazionale con ricadute occupazionali, non solo sull’aeroporto di Cameri destinato a diventare un hub per i clienti dell’area europea e medio orientale.
I caccia bombardieri F35, tra l’altro, sono predisposti per trasportare ordigni nucleari.
Si comprende perciò il motivo che ha portato a rigettare la proposta approvata nel 2014 dal deputato dem, ex dc, Giampiero Scanu di dimezzare la commessa F35 e, nel 2020, a non prendere sul serio le istanze della pastorale sociale piemontese.
Ci troviamo, perciò, paradossalmente in una situazione simile a quella del primo conflitto mondiale dove a Torino rimase il nocciolo di una resistenza contro la guerra da parte dei socialisti e dei cattolici del circolo del Savonarola sempre più minoritari, fino alla sua soppressione decisa con legge marziale, davanti alla determinazione interventista.
È stato il Centro Sereno Regis, un punto di riferimento della cultura nonviolenta, a porre apertamente nel 2021, in due incontri pubblici con la presenza di professori del Politecnico, la domanda sul futuro di Torino come “città delle armi”.
Un quesito che sollecita una diversa politica economica e industriale connessa ad una visione del ruolo dell’Italia in Europa e nel mondo diversa dalla realpolitik delle armi che papa Francesco non si stanca di denunciare.
Si tratta di capire se, al di là delle retorica, esistano o meno soggetti della società civile in grado di prendere sul serio questa direzione di marcia.
Sono questi alcuni dei punti emersi da un incontro promosso il 20 ottobre a Torino dai soci di Banca etica nei locali dell’ex fabbrica metalmeccanica Cimat convertita ad un luogo di socialità e produzione culturale da parte del Gruppo Abele. Una delle tante storie sorprendenti di vitalità di una città emblematica del nostro Paese.
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