Torino dopo la Fiat

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No, non è un ritorno al passato. L’età della pietra è solo il nome di un accogliente negozio di pietre dure in via Mazzini, a poca distanza dalla stazione ferroviaria torinese di Porta Nuova.Anche qui si parla del presente, del crudo presente, e le affabili signore Sandra e Teresa raccolgono le confidenze delle clienti, dopo che il Salone dell’auto è stato cancellato. “Non è una mazzata, ma il futuro di tutta l’area resta nell’incertezza “, spiega una giovane donna. E una più matura: “Sono i segnali di una crisi temuta e aspettata”. Il Salone si sarebbe dovuto tenere dal 22 aprile al 5 maggio,ma, con i preparativi già in corso, è stato improvvisamente cancellato.La maggioranza della case automobilistiche straniere presenti in Italia ha ritirato, in febbraio, l’adesione. In termini secchi, per la città significa un mancato giro d’affari di circa 150 milioni di euro (quasi 300 miliardi di lire).Ma il colpo più duro è per il prestigio nazionale e per quello di una grande città che dette vita – correva l’anno 1900 – alla prima rassegna automobilistica nazionale. Torino è da oggi un po’ meno capitale dell’auto. Eppure non c’è pessimismo in città, semmai nobile rassegnazione. E, discreta ma determinata – come lo sono i torinesi -, una voglia di rivincita. Una voglia che non poggia ovviamente solo sulle prossime Olimpiadi invernali che si disputeranno qui nel 2006. Nell’ultimo decennio ne hanno visti un bel po’ di segnali di declino. Ma, senza scomodare il settore auto, basta riandare al 7 novembre scorso, quando l’assemblea del consiglio di amministrazione della Telecom (ora nell’orbita Tronchetti Provera) ha approvato il trasferimento della sede sociale da Torino a Milano. Insomma, partenze o chiusure. In dicembre, la Fiat ha annunciato una rivoluzione organizzativa e finanziaria del comparto auto: cambio dei vertici e cura dimagrante, con diciotto stabilimenti da chiudere, di cui sedici all’estero, per complessivi 6 mila posti in meno. L’anno scorso, nonostante il record di vendite di auto in Italia, il gruppo di Torino ha presentato conti in perdita per 550 milioni di euro. Un’emorragia! “È venuta meno la forza della Fiat,non solo in riferimento al Salone, ma anche ai rapporti con la concorrenza”, evidenzia Guido Orrù, dirigente industriale. E Rino Ricciuti, consulente per l’antinquinamento: “Si va perdendo quel raffinato patrimonio di cultura e capacità artigianali dei carrozzieri e dell’indotto Fiat”. Giorgio Marchetti,manager nell’ambito dell’automazione industriale, dà voce ad un diffuso malessere: “Una volta era un onore lavorare per la Fiat, adesso no. Si è deteriorato il rapporto con la città per un motivo: la Fiat è stata gestita da finanzieri e non più da imprenditori”. Non è infatti in discussione la solidità finanziaria della multinazionale piemontese, quanto la sua presenza industriale in città e la capacità di dare lavoro a decine di migliaia di torinesi. Il punto di svolta nell’azienda degli Agnelli risale al 1989, quando lo scontro tra Ghidella e Romiti si conclude con la vittoria di quest’ultimo e la conseguente scelta di non scommettere più prevalentemente sull’auto. Eppure stava per acquisire la Citröen, era in avanzata trattativa con la Ford, mentre la Bmw era in vendita per la grave crisi in cui versava. Ma tutto svanì nel nulla. Era più remunerativa la finanza che la produzione industriale. Le conseguenze non hanno perciò tardato a mostrarsi: nel 1998 l’auto rappresentava per il gruppo Fiat solo il 52 per cento del volume d’affari; tre anni dopo, ovvero nel 2001, la quota è scesa vertiginosamente al 41 per cento. E la città ne sa qualcosa. La produzio- ne di auto nel ’97 era attestata su 568 mila vetture; il prossimo anno ne usciranno dalle catene di montaggio 197 mila, con un crollo del 65 per cento. Per i torinesi non è stata certo motivo di gioia la notizia dell’abbandono dello stabilimento di Rivalta e il trasferimento a Mirafiori delle linee di produzione dell’Alfa 166 e delle Lancia Thesis e Lybra. A fine 2002 arriveranno altri due colpi bassi: cesserà la produzione della Panda, che occupa 1.500 persone (le normative europee impongono, in tema di sicurezza, sistemi con maggiore tecnologia), mentre la costruzione della Marea sarà trasferita in Turchia per i minori costi della manodopera. “L’annullamento del Salone è solo temporaneo”, si sono affrettati a precisare in tanti. “La gestione del Salone non può essere affidata soltanto ai privati. È stato un errore politico”, ha tuonato Andrea Pininfarina, leader degli industriali torinesi. “Comune, Provincia e Regione acquisiscano il marchio del “Salone dell’auto” per organizzare la rassegna”, hanno proposto i politici locali. Ma Torino crede davvero al rilancio dell’appuntamento? Non suonano incoraggianti le parole del presidente della Ford Italia: “L’Italia non ha bisogno di due saloni. Meglio concentrarsi su Bologna “. Più chiaro di così. E i numeri dell’ultima edizione sono spietati: al Motor Show bolognese i visitatori sono stati un milione e mezzo, a Torino 490 mila. “Quanta fretta di seppellire Torino – esclama Roberto Manero, impiegato in Fiat Auto -. La drammatizzazione giornalistica falsa la realtà. La città sta regredendo a centro marginale, ma c’è un tessuto produttivo ancora vivo: 160 mila posti di lavoro persi nel settore industriale sono stati recuperati nell’ambio del terziario”. Clem Fritschi, imprenditore svizzero di macchine utensili, in città da molti anni, confida nelle doti dei torinesi: “Non si lamentano, non protestano e sono intraprendenti anche nei momenti di crisi. Non spaventiamoci per un ridimensionamento della Fiat: può favorire il decollo di altri settori”. Ne è convinta Sandra Colombi, insegnante di matematica e partecipe della vita culturale della città: “Tra tanti giovani e meno giovani c’è la voglia di rinascita, di ritrovare fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità professionali, cogliendo l’occasione di questa transizione”. A Torino non difettano solide basi, come nel settore bancario – con l’Istituto San Paolo, che ha acquisito il Banco di Napoli e le casse di risparmio del Nord Est – e in quello assicurativo, con una decina di società di tutto rispetto, dalla Sai alla Reale Mutua. Qui hanno sede un centro dell’Unione europea che distribuisce finanziamenti per gli studi ai paesi dell’Est e l’ufficio internazionale del lavoro delle Nazioni Unite, che presto darà vita ad una università. Ma i segnali più interessanti emergono da iniziative innovative, come riportato qui a fianco. Michelangelo Bartolin, studente di medicina, crede nella vitalità della sua Torino. Di sera si scopre una città vivace, con molti giovani in giro, un pullulare di locali simpatici, dalle frequentate birrerie alla novità delle vinerie, dai tanti cinema del centro agli ambienti con musica. “Saremo ridimensionati rispetto a Milano, ma la città non sta morendo”, dice convinto. Guizzi innovativi nella transizione Dal 25 febbraio scorso è iniziato il conto alla rovescia verso il 2006, quando Torino ospiterà le Olimpiadi invernali. Grande attesa per una festa dello sport che consentirà alla città di mostrarsi sotto i riflettori della vetrina planetaria. Non minori sono comunque le aspettative di ordine economico, con la viva speranza che l’appuntamento con i cinque cerchi fornisca una notevole spinta allo sviluppo. La prospettiva olimpica non attenua comunque il contraccolpo per il ko del Salone. La bocciatura brucia. E non solo per lo smacco in sé. Si teme che la Fiat stia attuando, a passi felpati, una strategia di abbandono dell’area torinese. È quanto sostengono i sindacati. Una scelta inevitabile, ribattono gli analisti economici, secondo cui non ha più senso per la Fiat restare a Torino. Il motivo è presto detto: un dipendente di Mirafiori costa il 50 per cento in più di un lavoratore medio del resto d’Italia, perché è una manodopera più vecchia e gli impianti non sono efficienti. Spaventa una Torino senza Fiat? Secondo gli esperti, una riduzione dell’attività dell’auto (o addirittura un’eventuale chiusura) non dovrebbe produrre effetti drammatici, pure perché molta parte della popolazione andrà in pensione. La situazione attuale è ben diversa da quella di vent’anni fa. Anche se a Mirafiori lavorano ancora 20 mila persone. La città ha saputo convivere e gestire le varie crisi, riuscendo a non soffrire gravi scompensi sociali, pur perdere prestigio e benessere. A questa sfida la città sta rispondendo con impegno, anche se un po’ tardivo. Da un anno, Torino è costellata di cantieri per la costruzione della metropolitana che entrerà in funzione nel 2007. Insieme al passante ferroviario in allestimento, contribuirà a cambiare il modo di vivere la città. L’aeroporto è stato da poco riammodernato, e in futuro si potrà viaggiare fino a Milano su treni ad alta velocità. Con l’alta velocità, anche la Francia diventerà più vicina (restano i problemi per il traforo in Val di Susa): Lione sarà rapidamente raggiungibile nel 2012 dai supertreni. Infrastrutture al passo con le nuove esigenze sono la condizione preliminare per attrarre investimenti. Ma non bastano. Il futuro produttivo di Torino, indicano gli esperti, sembra piuttosto legato, ad esempio, ai laboratori Ti-Lab (già Cselt), gruppo Telecom, un centro di rilievo mondiale con 1.500 ricercatori, che si occupa di progetti d’avanguardia, come il riconoscimento elettronico della voce. C’è, inoltre, l’imprenditoria legata all’università, soprattutto il Politecnico, capace di attrarre a Torino la Motorola, l’azienda americana dei cellulari, che qui ha installato i laboratori di ricerca. Nell’ultimo anno e mezzo, nei comparti elettronici è nata una piccola e media imprenditoria informatica sor- prendentemente vitale.Questa si è unita al mondo artistico, che aveva lontane radici cinematografiche (il cinema italiano è nato qui). E quindi c’è una serie di iniziative sui nuovi media con un circuito e con prodotti che potranno crescere. Torino è diventata così un grande centro di musica, con tutto l’indotto che questo comporta. Qualche segno di vitalità viene dall’arte e dai musei. Iniziative sufficienti per un effettivo rilancio? “Il peso complessivo di tutte queste attività sull’economia torinese è ancora molto contenuto – spiega Mario Deaglio, docente di economia internazionale all’università di Torino -, il processo è lento ma sicuramente ha imboccato la giusta direzione e dovrebbe portare a un certo rilancio”

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