Topolino, Meucci ed altri brevetti

Quando il generale Garibaldi sbarca a New York, nel 1850, è stanco, inquieto e fuggitivo. È finita l’avventura della Repubblica Romana, è andato male il tentativo di raggiungere Venezia per fomentare la ribellione contro gli austriaci, e nella fuga attraverso le lagune di Comacchio è morta anche la sua compagna, Anita. In America, però, Garibaldi viene accolto calorosamente dalla locale comunità di emigrati italiani e ospitato nella casa di Antonio Meucci, che oltre al vitto, all’alloggio e al calore di una semplice vita familiare, gli offre anche un lavoro nella sua piccola fabbrica di candele. L’eroe dei due mondi non rimarrà a lungo a lavorare con le candele, il suo spirito inquieto lo porterà presto in Sud America e poi di nuovo in Italia, ma non dimenticherà mai l’oasi di affetto e di protezione che Meucci gli ha offerto nel momento del bisogno. Per Meucci, invece, l’onore di aver ospitato Garibaldi sarà una delle poche soddisfazioni della vita. La sua fabbrica di candele, infatti, dura poco e presto si trova in ristrettezze economiche, tanto che la moglie, in sua assenza, decide di vendere per pochi dollari, come ferrivecchi, ferrivecchi, gli “inutili” prototipi di apparecchi telefonici che il marito aveva inventato, costruito e studiato durante tutta la sua vita. Infatti fin da quando era stato assunto come giovane attrezzista nel teatro la Pergola di Firenze e poi, emigrato a Cuba, nel teatro Tacòn dell’Avana, Meucci nei momenti liberi aveva cominciato a costruire strani marchingegni che permettessero di comunicare tra il palcoscenico e gli operai appollaiati in alto sopra il palco, per il movimento degli scenari. Ogni volta che doveva essere mosso un fondale o una tela, per non disturbare la rappresentazione venivano dati dal basso gli appositi segnali attraverso movimenti di torce; peccato che spesso prendeva fuoco tutto il teatro. Meucci invece aveva cominciato con due semplici imbuti legati alle estremità di un filo lungo 18 metri calato fino al palcoscenico, e attraverso questo cercava di dimostrare che era possibile parlare e ricevere ordini(1). Per anni e anni, prima a Firenze, poi a Cuba e infine a New York, provando e riprovando fili elettrici, bobine e membrane, Meucci aveva perfezionato l’invenzione che, era sicuro, gli avrebbe dato la gloria: il telettrofono come lo chiamava. La moglie però considerava le ricerche del marito solo un’inutile perdita di tempo e di soldi, gli amici ci vedevano solo un divertimento, e gli industriali gli rubavano le idee, per cui Meucci ridotto in povertà non riuscì neanche a trovare i soldi per depositare il brevetto della sua invenzione. Quando anni dopo Bell brevettò e propose al mondo il telefono, uguale a quello di Meucci, anche se perfezionato e commercializzato con tutta la potenza industriale nazionale alle spalle, Meucci provò invano a citare in giudizio l’avversario. Nonostante il convinto sostegno di tutta la stampa americana che sosteneva la battaglia del vecchio italiano senza mezzi contro il “Golia” industriale e finanziario, Meucci perse la sfida; prima in tribunale, poi infine davanti alla Corte Suprema, preoccupata che una vittoria dell’italiano potesse danneggiare l’espansione dell’industria americana nel mondo, espansione trainata in modo irresistibile da questo nuovo meraviglioso prodigio, il telefono. Meucci morì a Staten Island il 18 ottobre 1889 in assoluta povertà. Centotredici anni dopo, grazie a documenti originali ritrovati recentemente a Washington e all’Avana da studiosi italiani tenaci e decisi, il Congresso americano ha riconosciuto che era stato Antonio Meucci e non Bell ad inventare il telefono. Sconfitta È interessante notare come questo tardivo riconoscimento del Congresso Americano sia avvenuto quasi in concomitanza con quella che si potrebbe definire una clamorosa sconfitta per l’umanità, sancita ancora dalla Suprema Corte degli Stati Uniti. Non sembri troppo forte la frase. Qualsiasi opera dell’ingegno, libro, articolo, film, canzone, ecc. viene giustamente retribuita con il pagamento del cosiddetto diritto d’autore. Questo diritto dura un certo periodo di tempo, dopo di che l’opera diviene patrimonio dell’umanità. Quasi tutte le opere prodotte nei secoli fino all’Ottocento, infatti, sono ormai di pubblico dominio, e quindi qualsiasi editore può per esempio stampare un libro di sant’Agostino o di Manzoni senza chiedere il permesso o pagare diritti a nessuno. È un elementare principio: la cultura prodotta dall’umanità nella sua storia è patrimonio degli uomini di tutti i tempi, salvo il giusto riconoscimento all’autore. Peccato che questa disponibilità si sia improvvisamente interrotta per colpa di Topolino. Nato sul finire degli anni Venti dal genio di Walt Disney, il celebre topo ha allietato i sogni di innumerevoli generazioni fino ad oggi, facendo la fortuna della omonima società che ne detiene tuttora i diritti di sfruttamento. Società che ripetutamente, ogni volta che si avvicinava la scadenza dei diritti di sfruttamento di Topolino, Paperino & C., è riuscita a fare allungare il periodo di validità del monopolio (copyright). In pratica con la recente sentenza della Corte Suprema è stata confermata la proroga per altri 20 anni, portando quindi addirittura a 70 anni dalla morte dell’autore (o co-autore) il periodo di validità dei diritti (nell’800 erano 15 anni). Il problema non è tanto o solo il guadagno della multinazionale americana; il vero disastro è che l’estensione di questo diritto si riferisce non solo a Topolino, ma automaticamente a tutte le opere prodotte dagli anni Trenta in poi: una memoria storica di centinaia di migliaia di canzoni, libri, film che non potranno diventare patrimonio dell’umanità e quindi essere stampate, suona- te o fatte circolare liberamente, anche su Internet. Gli altri paesi del mondo, Europa compresa, probabilmente si adegueranno. In pratica i “diritti” commerciali di pochi limitano l’accesso alla cultura da parte di tutti, con un dettaglio che rende ancora più ridicolo il tutto: della stragrande maggioranza delle opere del ventesimo secolo nessuno detiene ormai i diritti, per cui queste semplicemente non saranno disponibili almeno per i prossimi venti anni senza che ci guadagni nessuno. Due storie opposte: da una parte l’impossibilità di pagare il costo del brevetto del suo telefono ha impedito a Meucci di ottenere il giusto riconoscimento per la sua invenzione e quindi di goderne i benefici anche economici. Dall’altra un brevetto male utilizzato impedisce all’umanità di oggi di disporre e godere liberamente di qualcosa che è già suo, cioè della produzione culturale del secolo scorso. Vittoria futura? È evidente che va ripensata tutta la materia, anche sotto la spinta della tecnologia che sta cambiando i termini del problema. Non a caso proprio su Internet un terremoto è in corso: le maggiori case discografiche americane si sono accordate per citare in tribunale i genitori dei minorenni che si scambiano gratuitamente file musicali da computer a computer, coi famosi sistemi peer to peer. Sono pacchetti software che si basano sulla disponibilità digitale delle opere dell’ingegno, cioè permettono di scambiarsi un film o una canzone da una parte all’altra del mondo, direttamente in formato elettronico, senza il supporto materiale (carta o cassetta o pellicola o cd) che era necessario una volta per la riproduzione, e che quindi giustificava in parte certi prezzi. Qualcuno minaccia il boicottaggio dei negozi di dischi e cd, contro le aziende discografiche che hanno iniziato l’azione legale. Qualcun altro è pessimista e vede vicina una sconfitta definitiva. Io penso invece che questi siano gli ultimi colpi di coda di un mondo che sta per scomparire, un mondo basato esclusivamente sul “mercato e i suoi meccanismi monetari derivanti direttamente dagli istinti primari dell’essere umano”(2). È giusto pagare i diritti agli autori delle opere, questo è chiaro, anche Meucci ce lo insegna. Ma è altrettanto chiaro che la disponibilità in formato elettronico e i sistemi di scambio gratuito hanno cambiato la situazione di mercato e abituato i ragazzi ad una “condivisione” in rete così semplice e diffusa che è impossibile reprimerla o controllarla, se non molto parzialmente, o addirittura tornare indietro come se nulla fosse. Molto meglio alzare il livello della riflessione per definire nuove regole, con realismo e apertura al nuovo che si delinea. La sfida urgente è progettare e rendere concreto un modo diverso di concepire l’economia di mercato, dove il “di più” della gratuità e della disponibilità a livello globale non è confinato alla sola sfera strettamente privata, ma trasforma il mercato dal di dentro, incarnandosi in accordi internazionali e modi di fare impresa che tengano conto sia della “giusta” retribuzione del lavoro e dell’ingegno, sia della destinazione universale dei beni e delle risorse( 3). Qualcosa già si muove, a livello teorico e pratico. Ne vedremo delle belle.

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