Tom Petty e quel suo rock ruspante

È morto a 67 anni, stroncato da infarto, uno dei personaggi emblematici del rock americano. Ma Tom era una rockstar anomala, in primo luogo perché più interessata a dar spessore e coerenza alla sua carriera, che non ai coriandoli dello show business
ANSA/TANNEN MAURY

Il rock ha perso un altro pezzo importante. Da tempo Tom Petty non poteva più vantare la fama di cui godeva negli anni Ottanta, ma aveva saputo proseguire con rigore e ispirazione una carriera sbocciata nei tardi anni Settanta: con un’ipotesi di rock d’autore  che attingeva all’essenzialità ruggente della prima new-wave, quella ancora imparentata col punk; era poi passato a una formula di pop-rock meno spigolosa, per approdare infine ai più rustici scenari country, o per meglio dire roots-rock, che avrebbero caratterizzato gli ultimi anni della sua carriera.

Non è mai stato un Dylan o uno Springsteen, ma Thomas Earl Petty, originario di Gainsville in Florida, ma cresciuto artisticamente a Los Angeles – è stato a suo modo un grande. Perché portava dentro di sé tutta la sobrietà del rock, quel suo saper scarnificare l’essenza della vita per raccontarla nelle sue canzoni.

Una gavetta, la sua, durata anni di fatto una decina d’anni, fino a quel fantastico Damn’ The Torpedoes – il suo terzo album – che lo proiettò in un amen ai vertici dello show-business a stelle e strisce. Non riuscì mai più a raggiungere quegli apici, ma di lui occorre per lo meno ricordare che riuscì a mettere insieme un supergruppo pazzesco: i Travelin’ Wilburys – con Roy Orbison, Bob Dylan, George Harrison e Jeff Lynne – tutti insieme appassionatamente nel segno delle radici del più puro rock americano: quello germogliato nei bassifondi popolari, ma irrorato dalla cultura che da quegli stessi  bassi talvolta sgorgava come un fiume carsico.

Un falsetto inconfondibile sostenuto da schitarrate ventose, con la sua Rickenbacker così evidentemente à la Byrds (altro gruppo topico del protorock statunitese): questo è stato Tom Petty. Ma nel frattempo, in attesa della consueta messe di inediti e di nuove antologie che sempre accompagnano le morti rockettare, il suo ultimo album resta a tutt’oggi  Hypnotic Eye del 2014, l’ultimo di una serie di circa venti album, dove a parte il succitato Damn’ The Torpedoes, non figurano capolavori immortali, ma ottimi, onestissimi, album di puro rock statunitense. Solido e fluente insieme. Un banalissimo infarto ce l’ha portato via, verso quelle celesti “praterie” che sono poi l’immagine più efficace per esprimere l’humus da cui nei suoi ultimi anni Tom lo smilzo attingeva la sua ispirazione di rocker metropolitano cresciuto con la cultura del Sud e del Midwest nel cuore. Aveva appena terminato un’acclamata tournee per celebrare il quarantennale della sua band, i fedelissimi Heartbreakers: voleva smetterla con i tour per passare più tempo con la nipotina.

 

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