Con Tolstoj fra i cosacchi del Caucaso

Nuova edizione di un capolavoro giovanile. Valori di una popolazione fortemente radicata nella sua terra

Regione mitica, il Caucaso, e culla del genere umano per quel monte Ararat dove il Genesi ha posto il secondo inizio, dopo il diluvio, della stirpe degli uomini. Luogo di selvaggia bellezza e di indomite popolazioni musulmane: quegli osseti, cabardini, circassi, abkazi, ingusci, ceceni ecc. così tenaci nel difendere la propria indipendenza dalla civilizzazione russa e così sorprendenti, per noi occidentali, a causa del misto di nobiltà, di ferocia e di poesia che li contraddistingue. Il Caucaso, dove l’esistenza è più vera e intensa che altrove, dove fioriscono idilli o si consumano tragedie: meta ideale quindi per i rampolli della società bojarda dell’Ottocento, che come antidoto alle mollezze e alle ipocrisie della vita mondana cercavano in quei luoghi vergini e di libertà sfrenate una rigenerazione e un nuovo inizio.

Di qui il fascino esercitato su numerosi narratori e poeti (russi, certamente, ma non solo) a partire da François-Xavier de Maistre che con I prigionieri del Caucaso del 1813 creò il prototipo delle più note opere col medesimo titolo scritte da Puskin e Tolstoj. Senza tralasciare altri romanzi di uguale ambientazione come Il giovane bek di Aleksandr Bestuzev, lì esiliato e morto in una scaramuccia contro i circassi; o come Un eroe del nostro tempo di Michail Lermontov, forse il più romantico dei letterati russi del XIX secolo, lui pure morto giovane nel Caucaso, ma in duello a causa di una donna che peraltro a lui non interessava affatto. Autori, questi, che conobbero per esperienza diretta quel mondo arcaico evocante sanguinose epopee, ricoprendovi incarichi militari; e ne scrissero ora difendendo le ragioni espansionistiche dell’impero zarista, ora sospendendo il giudizio e dando conto invece, oltre che della bellezza dei luoghi, dei valori insiti nei suoi fieri abitanti.

Per tornare al Tolstoj caucasico, al racconto citato va aggiunto il romanzo breve I cosacchi, capolavoro riproposto di recente dalla editrice maceratese Quodlibet nella traduzione esemplare di Agostino Villa.

Chi erano i cosacchi all’epoca? Popolo in origine seminomade, che viveva di caccia, di pesca, di scorrerie e, una volta divenuto stanziale, anche di agricoltura, occupava le steppe lungo il basso corso dei fiumi Don e Dnepr, sparpagliato in comunità militari e di mestiere rette da un atamano. Gelosi della propria cultura e autonomia, i cosacchi finirono per farsi difensori della religione ortodossa specialmente contro tatari e turchi. Non solo: pionieri nella conquista di nuovi territori, occuparono aree-cuscinetto ai confini più remoti dell’impero russo, avendo affidata fra l’altro la raccolta del tributo dovuto allo zar.

Ospiti cosacchi della regione dell’Amur e Primorye, anni 1850. Foto: Grandpa, Wikipedia

Dal 1851 al 1854 conobbe da vicino questo mondo in fermento un Tolstoj poco più che ventenne, venuto a combattere i separatisti ceceni con l’intento di dare un nuovo inizio ad una esistenza che non lo appagava. Fortemente influenzato dai costumi e dallo stile di vita del popolo cosacco, il giovane Lev meditò di ricavarne un’opera letteraria la cui stesura tuttavia risultò piuttosto tormentata, protraendosi negli anni con varie interruzioni e riprese. Finalmente ciò che, all’inizio era stato concepito come un trattato etnografico e poi come un poemetto, prese nel 1863 la forma attuale di una narrazione in gran parte autobiografica.

La trama in breve. Il protagonista Olènin (alter ego del conte Tolstoj), rampollo di una nobile famiglia pieno di idealità, generoso, ingenuo e impaziente di far valere il suo coraggio, lasciatasi alle spalle la mondanità moscovita, va ad arruolarsi in qualità di allievo ufficiale a Novomlìnsk, villaggio di frontiera dal quale si scorgono le alte cime innevate del Caucaso, roccaforte delle bellicose popolazioni circasse e cecene.

Gradualmente, tra avventure di guerra e di caccia, Olènin viene attratto dalla vita semplice, sana e operosa degli abitanti, in netto contrasto con quella frivola e scioperata che era stata la sua. Inevitabile l’innamoramento con la bella Mar’janka che, benché promessa al giovane Lukaška, quando il giovane ufficiale le si dichiara, sembra accettare la sua proposta di matrimonio.

Durante uno scontro a fuoco tra cosacchi e ceceni al quale egli partecipa come semplice spettatore, il rivale Lukaška viene gravemente ferito. Ritornato al villaggio, Olènin rivede Mar’janka, dalla quale però viene respinto. Purtroppo, nonostante i suoi tentativi, non è riuscito a integrarsi in quel popolo primitivo e istintivo: per tutti è rimasto l’aristocratico che non si capisce bene cosa ci stia a fare lì. Non gli resta che farsi trasferire alla fortezza dov’è lo stato maggiore da cui dipende, il che equivale a lasciarsi riassorbire nella falsità del suo mondo di provenienza. Al momento di accomiatarsi, l’unico a salutarlo con vero rimpianto è il vecchio cacciatore Jeròška, che gli si era sinceramente affezionato.

Tolstoj ci immerge in questo universo cosacco, comunicandoci il proprio entusiasmo sia per le espressioni vitali della gente, sia per le bellezze naturali della steppa. Sèguito ideale di Infanzia, adolescenza, giovinezza, altra sua opera giovanile anch’essa in parte autobiografica (e ugualmente pubblicata da Quodlibet), I cosacchi palpita delle tematiche più care allo scrittore, come quando contrappone città e natura e ravvisa nell’abbraccio con la seconda la possibilità per l’uomo di sublimarsi e aver placata la ricerca febbrile di uno scopo per cui vivere. Senonché l’amaro finale attesta l’impossibilità di raggiungere tale meta: almeno per un inquieto come lui, perennemente diviso tra pesantezze carnali e tensione spirituale.

Ma Tolstoj ci sorprende ancora con un altro romanzo breve maturato nel segreto fino alla tarda vecchiaia e apparso postumo, nel quale ritroviamo gli scenari caucasici dei Cosacchi: è Chadži-Murat, dove l’eroe di turno è un leader di etnia àvara contrario all’annessione russa della sua terra. A considerare il lungo lasso di tempo intercorso fra le due opere, ci aspetteremmo stavolta una rievocazione nostalgica e permeata di poesia. Niente di tutto ciò: la narrazione – sempre scattante, senza voli poetici, realistica (il tipico realismo tolstojano) – ci trasporta di nuovo in quel mondo, come appena lasciato. Ritorno alla freschezza degli anni giovanili, questo tardivo capolavoro è la dimostrazione che, nonostante il ripudio dell’ultimo Tolstoj per la forma romanzesca, idealmente era rimasto in quella regione che sempre più, col trascorrere del tempo, doveva essergli apparsa come una agognata “terra promessa”.

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