Tolkien il signore della fantasia
Diceva il grande Chesterton: se si racconta a un bambino di sette anni che una porta si aprì ed entrò un drago, lui si entusiasma; ma un bambino di cinque anni si entusiasma se gli si racconta che una porta si aprì. Hanno capito in profondità proprio questo Andrea Monda e Saverio Simonelli, per aver deciso di spiegarsi e spiegare, in un libro bellissimo, cosa ha voluto fare J.R.R. Tolkien scrivendo Lo Hobbit, Il Signore degli Anelli, Il Silmarillion, che è poi la genesi sintetica degli altri due. Il loro studio ha due grandi meriti: quello di chiarire cosa ha voluto realmente dire un professore universitario inglese di origine tedesca, filologo di lingue nordiche antiche, “inventando”, con gli strumenti della più raffinata e scrupolosa linguistica dilatata in fantasia generatrice di miti, un mondo che è poi la nostra stessa Terra, vista però in un tempo pre-storico; e quello di dimostrare l’impossibilità di spiegare l’interrogativo- Tolkien (gli autori citano opportunamente Oscar Wilde, secondo cui tutti sanno dare risposte, ma a fare vere domande ci vuole un genio), mistero umano, artistico e, sì, religioso. Anche perché, cattolico, non credeva di aver inserito prospettive religiose, nel suo lungo romanzo fiabesco, ma si rese conto rileggendolo e correggendolo che Il Signore degli Anelli “è fondamentalmente un’opera religiosa e cattolica”. Nel senso, spiegano bene Monda e Simonelli anche appoggiandosi a precise dichiarazioni dell’autore, che di magico, in senso stretto, nel grande testo c’è ben poco, e la partita che invece vi si gioca è quella della grazia e della libertà, in eroi grandi e piccoli – tutti attraversati da limiti, debolezze e paure di scegliere – posti di fronte alla seduzione maligna del Potere e alla chance, però, di usarlo benignamente: affrontando rischio e morte, e dunque la prospettiva di un senso del bene e del male che sfocia nel significato dell’esistenza, cioè nell’immortalità dell’anima. Ma tutte queste parole teologiche nel lessico e nel raccontare di Tolkien non ci sono, per pudore, per anglosassone understatement e per finezza di artista che lascia, al non detto e al narrativamente solo sfiorato, il ruolo inappariscente ma decisivo di esprimere il più alto e il più profondo. È allora spiegabile, anche se non sempre, anzi quasi mai incolpevole, il fiorire di equivoci in tutto il mondo, ma in Italia gagliardamente: Tolkien conservatore, “di destra” (eh già, lo pubblicava Rusconi), e via folleggiando, anche a causa del patrocinio, nell’Introduzione, di Elémire Zolla, che lo colorava del suo proprio tradizionalismo gnostico. Un ulteriore pregio della ricerca sta nell’aprire, attraverso brani di epistolario, dichiarazioni private e altro, squarci di luce sull’anima grande di Tolkien: come quando, a richieste dalla Germania hitleriana (per una possibile traduzione de Lo Hobbit) sulla presenza o meno di sangue ebraico nella sua famiglia, lo scrittore – che poi si sarebbe anche rammaricato non del successo ma del “deplorevole culto” mondiale della sua opera – rispose che “purtroppo” non c’erano tra i suoi antenati “membri di quel popolo così dotato”, e che in ogni caso una tale questione, impertinente e irrilevante, poteva far cessare di essere il suo cognome germanico “motivo di orgoglio”. Inutile aggiungere che le storture ideologiche della critica in Italia hanno provveduto a minimizzare anche questo bellissimo saggio; ma Tolkien, che ha dato con la propria opera impulso e volàno alle infinite fantasy letterarie e fiction cinematografiche successive – che non hanno, per merito letterario e qualità artistica, nulla a che vedere con lui -, merita di essere capito; e questo libro, peraltro godibilissimo e leggibilissimo, ne è la chiave di comprensione. A. Munda – S. Simonelli, Tolkien il signore della fantasia, Frassinelli, pp.278, e13.