Togliere i vincoli ai bilanci pubblici?

A proposito dei recenti accordi sul “patto di stabilità” europeo.
Ministri finanziari a Bruxelles

La crisi economica in corso – la più grave dopo quella del ’29 – ci ha insegnato varie lezioni. Una di queste è l’importanza di una seria disciplina nei bilanci pubblici, ma non nella fase del crollo della domanda di beni da parte del settore privato. Anzi, in quei momenti è provvidenziale che i governi aumentino le spese, e magari riducano anche le imposte, per contrastare la caduta della produzione. Bene hanno fatto, quindi, i governi, ad esempio Usa e Cina, che hanno rapidamente approvato e realizzato robusti piani straordinari di sostegno all’economia. Certo, potevano permetterselo, grazie al fatto di partire da un livello di debito pubblico non troppo elevato.

 

Bene ha fatto, al contrario, il ministro Tremonti, ad opporsi ai numerosi inviti a spendere che gli sono arrivati in questi ultimi anni. Il debito pubblico italiano, infatti, era già a livelli proibitivi all’inizio della crisi, il che non lasciava, e non lascia, margini di manovra. Meno bravo è stato, invece, lo stesso ministro Tremonti nella legislatura 2001-2006, quando ha lasciato che il nostro debito pubblico riprendesse la sua corsa verso l’alto, interrompendo il faticoso cammino di risanamento avviato dal governo Prodi ai tempi dell’ingresso dell’Italia nell’euro.

 

Queste riflessioni ci aiutano a dare una valutazione dell’accordo raggiunto a Bruxelles dai ministri finanziari europei a proposito del “patto di stabilità”, l’insieme delle regole riguardanti la finanza pubblica che i paesi fondatori si sono dati al momento dell’avvio dell’euro. La prima di queste regole è il divieto di avere un disavanzo di bilancio superiore al 3 per cento del Pil in ciascun anno, pena il pagamento di penalità molto salate.

 

Una regola rigida, che è stata giustamente criticata per il fatto di non distinguere tra anni di vacche grasse, in cui l’economia gira e si raccolgono più imposte, e anni di vacche magre, in cui senza far nulla i conti vanno peggio e, per giunta, sarebbe desiderabile spendere di più per sostenere l’economia. Ma, ciononostante, una regola senza la quale oggi avremmo governi ancora più indebitati e, quindi, ancora più a rischio di insolvenza (in altre parole, di Grecie ne avremmo parecchie). Bene quindi che questa regola non sia stata allentata, come qualcuno proponeva, ma sia stata sostanzialmente riconfermata.

 

Attenzione, però. Sottolineare l’importanza del rigore nei bilanci pubblici non significa invitare i governi all’immobilismo. Proprio in tempi di crisi è importante darsi delle priorità. Per dirne una, credo che mantenere l’età della pensione a 60 anni (come vorrebbero opposizione e sindacati) anziché a 62 (come vorrebbe oggi il governo francese) non sia un obiettivo prioritario e che quei soldi sarebbe meglio destinarli, ad esempio, ad incentivare l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Ma per rendere accettabili riforme pur giustificate come questa c’è una condizione cruciale da soddisfare: che i sacrifici richiesti ad una categoria siano accompagnati dal taglio dei tanti privilegi ingiustificati che ancora si nascondono nelle pieghe dei bilanci pubblici.

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