Tobia, lo spaventapasseri

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Era un freddo pomeriggio di fine ottobre. Vanni, seduto sul vecchio tronco adagiato a fianco del suo casolare, accese la pipa e, con immensa soddisfazione, guardando il campo che si adagiava ai suoi piedi, si disse: «Ecco, anche quest’anno è fatta! ». La semina si era conclusa. Ora non restava altro che affidarla al buon Dio e riposarsi un po’ in attesa che, col passare delle stagioni, i chicchi germogliassero e le piantine sbucassero dalla terra. Tirò due o tre boccate di fumo e poi si alzò per fare quattro passi. Ma ad un tratto si accorse di non aver pensato alla cosa più logica: c’erano nei dintorni tanti uccelletti ed ogni tanto qualcuno si posava sui solchi e ‘tic tic’… il seme diventava la sua pappa! E che buona pappa! Bisognava chiamare tutta la famiglietta per far assaporare quei deliziosi bocconcini, e così ‘tic tic’, tic tic’, tic tic’… due, tre, cinque passerotti erano già arrivati a condividere allegramente il pasto. Vanni cominciò a preoccuparsi. Voleva bene agli uccelli ma non poteva certo seminare i campi per soddisfare il loro appetito. Che fare? Non avrebbe certo potuto passare le giornate a scacciare gli uccelletti voraci. Pensa che ti pensa, gli venne una magnifica idea: doveva creare un altro Vanni, un Vanni finto, con testa, braccia, gambe, berretto; un Vanni che si muoveva ma che avrebbe potuto restare giorno e notte in mezzo al campo per proteggere la semina, un Vanni, quindi, che non poteva essere altro che… fatto di pezza. Detto e fatto! Con qualche straccio procuratogli da Dorina, sua moglie, un po’ di spago, tre o quattro manciate di paglia, un cappellaccio smesso, ecco il suo sosia, bell’e pronto per essere fissato su un bastone e piantato in mezzo al prato. I bambini di Vanni lo battezzarono subito: si sarebbe chiamato Tobia. Così saltellando attorno a Vanni, andarono a collocarlo tra i solchi. Adesso si sarebbe potuti stare tranquilli. Gli uccelli l’avrebbero preso per il contadino e, timorosi di venire acchiappati, sarebbero andati altrove a cercarsi il loro pranzetto. Così fu infatti; i passerotti non si sentivano più tranquilli a sbeccuzzare nel campo protetto da quel gran personaggio e cominciarono a disertare la zona. Tutti… tranne uno. Sapete, anche nelle migliori famiglie c’è sempre qualche tipo originale che non è capace di fare quello che fanno gli altri. Così era di Ciprì, un passerotto vivace e un po’ artista, con una discreta dose di curiosità che non sempre conviene agli uccelletti. Ma tant’è : lui era così e basta. Dall’alberello dove solitamente abitava aveva adocchiato Tobia e si era accorto che, in fondo, aveva una faccia allegra e bonaria e che non apriva mai bocca, quindi certamente non l’avrebbe potuto divorare. Incominciò così a fare delle avances; prima provò a svolazzargli attorno. Poi a sbeccuzzargli qualche frangia ed infine, dopo due o tre giorni di sondaggi, gli si posò temerariamente su una spalla, scrutandolo da sotto in su. Tobia ne fu meravigliato perché era il primo uccellino che si prendeva una simile confidenza, ma proprio per questo il suo cuore di pezza si sentì toccato e, approfittando di una folata di vento, girò la testa verso di lui e gli sorrise. L’uccelletto contraccambiò il sorriso e così divennero amici. Quando non c’era troppo vento e perciò si poteva star sicuri che Tobia non era agitato, Ciprì andava a posarsi sulla sua spalla e lo divertiva raccontandogli tante piccole storie di animali. Sapeva raccontare così bene che Tobia, sempre un pochino annoiato, dimenticava tutto e si perdeva colla fantasia in quelle magnifiche favole. L’inverno avanzava. Nebbia, vento, pioggia, freddo, giorni brevi e notti lunghe, lunghe, sempre più lunghe. Solo l’amicizia che ormai legava lo spaventapasseri all’uccellino riscaldava quelle cupe giornate. Un giorno arrivò la neve, tanta neve, soffice, candida, bella. Lo spettacolo era meraviglioso e anche Tobia si divertì a lasciarsi imbiancare travestendosi da Babbo Natale. Tobia avrebbe voluto comunicare l’incanto che sentiva nel cuore al suo piccolo amico ma in quel giorno Ciprì non si fece vedere e non apparve neppure il giorno dopo. Finalmente dopo tre giorni, un Ciprì stanco, affamato, infreddolito, si posò sulla spalla di Tobia, senza cinguettare come era solito fare. All’amico preoccupato raccontò quanto aveva girato quei giorni per trovare qualcosa da mettere sotto i denti (si fa per dire… da mettere nel becco ) ma non aveva trovato nulla, neanche un chiccolino e… quanta fame aveva! Così dicendo scostò la neve dalla spalla di Tobia, e si rannicchiò, vicino vicino alla sciarpa dello spaventapasseri. Lo stomaco era vuoto ma almeno qui c’era un po’ di caldo. Tobia sentì il suo cuore tremare dalla pena di non poter sfamare Ciprì ma non sapeva che fare. I giorni passavano. Il passerotto tornava ogni tanto a riscaldarsi presso il suo amico ma il pancino era sempre più vuoto, gli occhietti sempre più tristi, le alucce sempre più deboli… Tobia capì che presto l’uccellino non avrebbe più trovato nemmeno la forza di sollevarsi presso la sua spalla. Ma che poteva fare un povero spaventapasseri di pezza e di paglia? Pensò che solo Vanni, il contadino che ogni giorno si affacciava sulla soglia della sua casetta, avrebbe potuto procurare un po’ di cibo per sfamare Ciprì; bisognava assolutamente che lui si accorgesse del passerotto e provvedesse a dargli qualche granellino di miglio che gli facesse ritrovare le forze. E le pensò tutte, tutte, ma proprio tutte. Poi si decise: forse gli sarebbe costata la vita ma era pronto a qualsiasi cosa pur di salvare l’amico che moriva di fame. Chiese a Ciprì di usare delle sue ultime forze per stracciargli con il beccuzzo una parte del suo vestito ben cucito sul retro; poi si mise a pregare il vento di soffiargli dentro forte forte in modo da gonfiare i suoi vestiti come un pallone, di portarlo in alto staccandolo dal bastone che lo teneva ancorato a terra e di indirizzarlo alla casetta di Vanni. Raccomandò a Ciprì di tenersi ben fermo sul suo berretto e di non preoccuparsi di niente: tutto presto sarebbe andato a posto. Ciprì non capiva ma fece quanto l’amico gli aveva detto. Il vento giocherellone in un attimo sollevò Tobia e mentre la paglia si perdeva nel cielo lungo la traiettoria del volo, lo spinse con forza verso la casetta di Vanni, lasciandolo precipitare, ormai sfasciato, davanti alla porta. Dello spaventapasseri non rimaneva più nulla se non qualche straccetto, un bel faccione tondo con un gran sorriso e un piccolo uccello, allo stremo delle forze, aggrappato al berretto. Al rumore Vanni uscì e chiamò subito i suoi bambini: «Venite a vedere che cosa ha fatto il vento!». Mentre così diceva si accorse del passerotto tremante e infreddolito e con grande delicatezza lo posò sul davanzale della finestra. «Ma questa bestiolina ha fame! Presto bimbi, prendete un po’ di miglio, qualche briciola di pane e sfamatelo perché non muoia». Ciprì si sentì rivivere! Mangiò, mangiò, mangiò finché si sentì sazio; poi si diede una scrollatina e si guardò intorno. Che ne era stato di Tobia? Si accorse così del bel faccione, sorridente come mai, circondato da straccetti, posto lì accanto e capì: l’amico aveva dato la sua vita per salvarlo dalla fame e dal freddo. Una grande riconoscenza colmò il suo cuoricino e sentì che Tobia sarebbe rimasto accanto a lui per sempre, per insegnargli la misura di un amore senza misura.

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