Tiziano, la luce dei sensi

La più grande mostra sul genio veneto dal 1935 alle Scuderie del Quirinale. 40 tele di una produzione sterminata da tutto il mondo
Dal 4 marzo al 16 giungo le Scuderie del Quirinale ospitano una rassegna dedicata a Tiziano.

Ha provato tutto quello che un secolo traumatico, il Cinquecento, ha vissuto: trionfi, amori, glorie, desolazioni e angosce. Ha gridato, ha pianto, ha dubitato e infine ha creduto. C’è tutta la storia dell’uomo, di ogni uomo, nell’arte sterminata di un pittore che ha dipinto come Shakespeare, come Verdi, il grande teatro della vita.

Ragazzo di buona famiglia, da Pieve di Cadore giunge a Venezia a fine Quattrocento e beve dalle novità di geni come Giambellino e Giorgione. Ma è più ambizioso di loro, più strategico nel muoversi, e il contatto con i potenti della terra arriva presto: i Gonzaga, gli Estensi e poi la Roma dei papi – Paolo III Farnese – e in particolare gli Asburgo. Pittore amato da Carlo V e Filippo II, sponsorizzato alla grande da un personaggio scaltro come l’Aretino, invidiato, ricco (e avaro), geloso dei concorrenti veri o presunti (elimina di fatto Lotto, Pordenone e Sebastiano del Piombo): il campo è solo di lui, ne sanno qualcosa Veronese e Tintoretto.

A questa ambizione sconfinata corrisponde un genio altrettanto sconfinato. Ama la vita e la dipinge all’inizio con i colori dell’estate, le ombre calde, la freschezza dei corpi, le tinte date a campiture larghe in una sinfonia vibrante che è gioia della vita. Penso a tele come la Flora degli Uffizi, la Madonna e santi di Mamiano, la Giuditta (Roma, Doria Pammphilj), la Madonna del coniglio del Louvre, il Baccanale del Prado, la Pala Gozzi ad Ancona, vibranti di carne e sangue.

I ritratti, in cui già eccelle, sono indagini su personalità eccellenti: l’Uomo dal guanto, dal Louvre, giovane misterioso, è intessuto in un accordo di grigi e bianchi sfumati tra sete e velluti che incorniciano il volto di tre quarti, affilato e caldo. Guarda lontano: è la giovinezza dell’uomo realizzato, bella e distante. I personaggi di Tiziano infatti non sono mai al nostro livello, come in Lotto, ma sempre su un piano superiore: sono, ciascuno, l’Umanità.

Specchio mirabile è il ritratto di Paolo III, acuto negli occhi scintillanti che mettono a disagio, tanto il vecchio ossuto, emergente dai velluti e dai damaschi rosso-bianchi, è energico: vuole dominarci. Oppure si fa così lontano nella sua invincibile tristezza – la solitudine dei potenti (ci vorrebbe la musica verdiana del don Carlos a commentarlo) – da diventare irraggiungibile. Succede nel malinconico Carlo V col cane del Prado.

Tiziano è un dominatore. Anche della natura. La sue tele sensuali come la celebre Danae di Capodimonte mostrano il suo ideale di donna, creatura vicina-lontana, appetibile eppure ideale, irradiata dal calore di una luce dorata che è la luce dei sensi allo stato puro, fisico. Tiziano è un pittore del corpo. Lo esalta nello splendore delle vesti (la Bella di Firenze), nell’aristocrazia di un volto (il Tommaso Mosti di Pitti), nelle grandi pale d’altare dove in maestà si accampano i santi e la Vergine sulle nubi (la pala di san Niccolò in Vaticano). È il trionfo fisico del colore e della luce, dello splendore del corpo umano, siano essi santi o grandi uomini, e dove la natura irradia la sua luce benefica e vitale.

Ma verso il 1540 Tiziano, che vive anche drammi personali, come la vedovanza e la difficile educazione dei figli, ha una grossa crisi esistenziale e artistica. I giovani artisti che formano la corrente manieristica – Salviati, Rosso, Vasari, Bronzino, ma anche Tintoretto  e amici – lo contestano, di fatto. Il rischio per il maestro dei maestri, il pittore dell’imperatore, è l’isolamento. Tiziano si dibatte. Sforna tele esagerate, gonfie, come il San Giovanni Battista di Venezia, l’Incoronazione del Louvre. È sublime retorica.

Intanto, sprofonda in sè stesso. E da questa oscurità personale, mai evidenziata pubblicamente, rinasce. Un’arte nervosa, violenta anche, data a colpi e a spazzolate forti, con rossi grumosi e rissosi, produce capolavori di una tale forza da diventare il racconto drammatico dell’intera storia umana. Possono essere miti come Atteone, storie come Lucrezia, ritratti allucinati come il doge Venier. Tiziano racconta il dolore del mondo in tele di smisurata compassione per l’uomo, avvicinandosi ad una dimensione di fede non più decorativa, ma di estrema profondità. Nasce il sublime Crocifisso dell’Escorial, meditazione sul Cristo abbandonato di ineguagliabile dolore, nasce la Deposizione del Prado dove si ritrae nel vecchio Nicodemo. Nasce  nell’Apollo e Marsia: grido d’angoscia per le ingiustizie sull’uomo, esaltazione della dignità umana nel martirio. La tavolozza è sgranata, i colori violacei dati a ditate aggressive, la natura frammentata in mille direzioni, ben oltre la nostra arte contemporanea. È il sigillo del genio, che si ritrae con lo sguardo verso il futuro: solo volto, perché il resto è abbozzato, libero da qualsiasi regola.

Fino a dare la mano al Cristo morto, nell’ultima Pietà, perché anche il Cristo accolga lui. E tutto è allora compiuto.

Fino al 16/6 (catalogo Silvana editoriale)

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