Tira aria di rivoluzione

Il mercato della musica è in subbuglio. Mentre iTunes ha annunciato d’aver raggiunto la ragguardevole quota di 25 miliardi di canzoni vendute sul web, il music-business dà inattesi segni di risveglio: un più 0,3 per cento modesto, ma che segna un’inversione di tendenza dopo anni di crisi. La vera novità però si chiama Spotify: il programma è appena sbarcato in Italia e promette una rivoluzione copernicana dei consumi.
Spotify

È ancora presto per affermare che il digitale sta salvando il music-business, ma certo è che mai come di questi tempi l’industria musicale e i suoi infiniti indotti pare attraversata da un’inedita onda d’eccitazione. E gran parte del merito va indubbiamente a un’applicazione chiamata Spotify.

Di che si tratta? In apparenza è un semplice sito/applicazione/servizio dedicato allo streaming, ovvero un modo di consumare musica decisamente diverso da quelli utilizzati fino a qualche anno fa. Semplificando il discorso si può dire che, grazie allo streaming, la musica non è più necessario “comprarla”: né tramite un supporto fisico (album in vinile o cd), né virtuale (tramite il download dal web). Basta “affittarla”: quando e dove la si vuole ascoltare. Ed è qui che entra in campo Spotify, da qualche giorno sbarcato trionfalmente anche nel Bel Paese.

Lanciato in Svezia nel 2008, Spotify è in buona sostanza un immenso magazzino virtuale (oltre 20 milioni di canzoni al momento) al quale è possibile accedere direttamente dal proprio computer o dal proprio smartphone: si digita il brano, l’album, o l’artista che si vuol ascoltare e lo si ha immediatamente a disposizione. Il bello – e l’incredibile, per certi versi – è che tale servizio “on demand” è gratuito e assolutamente legale. Intendiamoci però: la gratuità è solo apparente giacché, in cambio, l’utente deve sorbirsi un po’ di pubblicità (al momento circa 3 minuti ogni ora di utilizzo), a meno che non decida di abbonarsi. In America il servizio vanta già venti milioni di iscritti e cinque milioni di abbonati a pagamento (con 5 euro mensili, tutta la pubblicità sparisce ed è anche possibile l’ascolto off-line).

L’accesso è semplicissimo e l’utilizzo molto intuitivo. E non è tutto: si possono organizzare delle playlist secondo i propri gusti; tramite Facebook è possibile condividere o divulgare le proprie preferenze, e magari anche inviare una compilation su misura a mo’ di dedica a un altro utente (un po’ come si faceva con le vecchie audiocassette negli anni Settanta). Il catalogo ha ancora buchi significativi (i Beatles, per esempio), ma è facile prevedere che presto diverrà praticamente onnicomprensivo. In ogni caso già ora Spotify consente l’utilizzo di tutta la musica che l’utente già possiede sul proprio computer o i-pod.

E siamo solo all’inizio. È facile prevedere che intorno a questo servizio (e i suoi concorrenti come il francese Deezer), mille altri ne nasceranno: già oggi molti artisti possono segnalare le loro nuove creazioni agli utenti, riviste e siti specializzati possono evidenziare le loro preferenze. Insomma, tutto molto “social oriented”. Ma il fatto davvero rilevante è che questa fantastica novità trascende le sue implicazioni informatico-tecnologiche per acquisire enormi valenze culturali e sociali. Di fatto significa passare dal concetto di possesso della musica a quello di accesso, con tutto quel che ne consegue: un’innovazione epocale paragonabile a quella dell’avvento del digitale, e destinata ad innescarne molte altre. Tutte potenzialmente promettenti e suggestive, almeno in teoria…

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