Tintoretto a 600 anni dalla nascita
Jacopo Tintoretto è Venezia. Più di Bassano, Veronese e Tiziano, nati in regione, mentre lui è un lagunare doc. Palazzo Ducale, l’Accademia, la Scuola di San Rocco, decine di chiese, fino a Santa Maria dell’Orto, dove Jacopo è sepolto dal 1594 quando muore a 75 anni, e dove ha dipinto due quadroni surreali e onirici col Giudizio universale e il Vitello d’oro.
Quasi mai fuori città, come Giovanni Bellini, si sposta solo a Mantova per poco tempo dai Gonzaga, non scenderà a Roma. Ma è informatissimo sull’arte contemporanea, da Raffaello a Michelangelo, dai Manieristi toscani ed emiliani ai pittori del Nord-Europa.
Un vulcano di idee e di fantasia: il piccolo uomo figlio di un tintore e padre di otto figli, tre dei quali sono a bottega con lui. Eccolo fulmineo ad aprire la mostra di Palazzo Ducale – barba arruffata, occhio rapace –, e poi a chiuderla, frontale, vecchio bianco, occhi scuri che han visto e sentito tutto.
Che genio. Sfida Tiziano, il pittore-padrone della Serenissima che non ammette rivali: costringe Lotto e Pordenone ad emigrare in provincia, Veronese gli si accoda, ma Jacopo non ha paura di nessuno e riempie la città di dipinti grandi e piccoli. Soggetti mitologici e biblici, ritratti dove tutto si concentra nel volto e gli occhi, aguzzi come il vecchissimo Jacopo Soranzo (Milano, Castello Sforzesco, in mostra), rapace come un’aquila sul vestito rosso porpora. Uno di quei vecchi indomabili, mai cadenti, sempre infiammati, come e più di quelli di Michelangelo.
Quando esordisce nel 1548 con il Miracolo di san Marco (Accademia) la gente rimane scioccata. Il santo si precipita come un fulmine a liberare lo schiavo a terra, tra colori elettrici, spazi percossi da una luce impetuosa: un vero colpo di teatro, fatto per stupire e commuovere, forse anche per stordire. Grande spettacolo di epos sacro, cinema ad effetti speciali diremmo oggi. Ma Jacopo seduce anche con i nudi femminili come la Susanna di Vienna in mostra (Palazzo Ducale): ragazza bionda dalle forme tornite, alla Michelangelo o Tiziano, ma trepidante una sensualità vitrea nel giardino dove si bagna, in mezzo al trionfo della natura sotto la luce dorata. I nudi femminili di Jacopo sono pieni di luce perlacea, di torsioni vitali, come la scenografica Origine della Via Lattea da Londra e le tele mitologiche nella Sala dell’Anticollegio a Palazzo.
Jacopo esalta il corpo umano, lo contorna con un segno forte, lo lancia in grovigli su per i cieli o sulla terra, in un dinamismo furente, solcato dentro gli spazi da pennellate fulminee che lo accendono, lo vivificano, rendendo le figure o spettri o giganti. Rapidissimo nell’intuire, nel pensare, nel fare, Tintoretto crea un mondo visionario dove sperimenta le infinite possibilità del moto e della stasi, del colore e della luce, pre-vedendo impressionismo ed espressionismo.
Ma tutto questo non sarebbe che uno spettacolo estetizzante e sbalorditivo se non fosse animato da una fede profonda nella bellezza della vita che, nei soggetti biblici – che formano il grosso dei suoi lavori – risplende come religione della verità e della gloria, animata da una vena cristiana sincera e profonda. Sulla scia del Concilio di Trento, Tintoretto produce un’arte commossa e commovente di santi e sante, miracoli, politici imploranti la Vergine (Accademia e Palazzo Ducale) e soprattutto l’immenso teatro religioso nella Scuola di San Rocco, dove opera dal 1564 al 1588. È la sua Sistina, come lo è la chiesa di San Sebastiano per Veronese, il grande concorrente sulla scena pubblica veneziana.
A San Rocco Tintoretto arriva con uno dei suoi trucchi: al concorso, nel 1564, mentre i colleghi presentano i bozzetti, lui mostra i dipinti già finiti e collocati nel soffitto di una sala, scombinando i piani dei colleghi, furiosi contro di lui. Ma Jacopo è anche questo. A San Rocco bisogna andare, per comprendere chi sia Tintoretto, prima o dopo aver visitato le due mostre.
Sgomentarsi davanti alla sterminata Crocifissione col Cristo altissimo contro il cielo plumbeo, ammirarlo candido e solo davanti a Pilato, regale sia nel portare la croce in un tramonto veneziano bellissimo e insanguinato nell’Ecce Homo, con i barbagli di luce scintillanti sull’armatura del soldato. È dolore, ma è soprattutto gloria, perché il ciclo biblico che giganteggia dinamico sul soffitto e le pareti in spazi infiniti è visto nell’ottica luminosa del vangelo di Giovanni, con chiari intenti catechetici. Ecco perché negli interni – le numerose Ultime Cene, soggetto prediletto –, Tintoretto ama cani, gatti, mendicanti, poveracci, gli umili: il popolo da cui egli stesso proviene. Ma intano si sfoga a raccontare, o meglio a filmare, momenti spettacolari di un Dio colossale che guida la storia, scene di sangue e momenti intimi. Come nella sala al pianterreno con le storie di Maria. Con gli anni, l’anima di Jacopo arriva alla contemplazione, lirica e mistica. Le due scene di Maria in preghiera nella notte estiva contro un cielo lunare e un paese romantico, dipinto a tocchi frammentati, “impressionisti”, sono voci dell’anima immersa nel divino. Preludono all’ultima tela, la Cena a san Giorgio Maggiore, dove Cristo e gli apostoli stanno dentro una visione di angeli-fantasmi. El Greco imparerà moltissimo. E pure Caravaggio che, dopo aver visto l’attimo sospeso tra Cristo e il carnefice nella Flagellazione da Praga, la citerà nella sua tela a Napoli.
Questa, fra i 50 dipinti e 20 disegni al Ducale, è una di quelle opere quasi sconosciute che sono capolavori. Come l’alba irradiante oltre le macchie degli alberi – già Seicento, già Ottocento –, nell’Apparizione della Vergine a san Girolamo.
Dopo tutto questo, non resta che fermarsi di fronte al Paradiso nella Sala del Maggior Consiglio. Un oceano di fasci luminosi che portano angeli e santi in discesa da noi. Luce e vita. È Tintoretto, ancora e sempre.
—–
Palazzo Ducale, fino al 6.1.2019. Washington dal 10.3 al 7.7 (catalogo Marsilio)
Gallerie dell’Accademia, fino al 6.1.2019, poi a Washington (catalogo Marsilio Electa).