Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza

Questa esperienza di Paolo, invece, ci apre un orizzonte nuovo: riconoscendo ed accettando la nostra debolezza, possiamo abbandonarci pienamente nelle braccia del Padre, che ci ama come siamo e vuole sostenerci nel nostro cammino.

«Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza» (2 Cor 12, 9).

Nella sua seconda lettera alla comunità di Corinto, l’apostolo Paolo si confronta con alcuni che mettono in discussione la legittimità della sua attività apostolica, ma non si difende elencando i propri meriti e successi. Al contrario, mette in evidenza l’opera che Dio ha compiuto, in lui e tramite lui.

Paolo accenna ad una sua esperienza mistica, di profondo rapporto con Dio[1],, ma per condividere subito dopo la sua sofferenza per una “spina” che lo tormenta. Non spiega di cosa si tratti esattamente, ma si capisce che è una difficoltà grande, che potrebbe limitarlo nel suo impegno di evangelizzatore. Per questo, confida di aver chiesto a Dio di liberarlo da questo impedimento, ma la risposta che riceve da Dio stesso è sconvolgente:

«Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».

Tutti facciamo continuamente esperienza delle nostre e altrui fragilità fisiche, psicologiche e spirituali, e vediamo intorno un’umanità spesso sofferente e smarrita. Ci sentiamo deboli e incapaci di risolvere tali difficoltà, persino di affrontarle, limitandoci al massimo a non fare male a nessuno.

Questa esperienza di Paolo, invece, ci apre un orizzonte nuovo: riconoscendo ed accettando la nostra debolezza, possiamo abbandonarci pienamente nelle braccia del Padre, che ci ama come siamo e vuole sostenerci nel nostro cammino. Proseguendo questa lettera, infatti afferma ancora: «È quando sono debole che sono forte»[2].

A questo proposito, Chiara Lubich ha scritto: «[…] La nostra ragione si ribella ad una simile affermazione, perché vi vede una lampante contraddizione o semplicemente un ardito paradosso. Invece essa esprime una delle più alte verità della fede cristiana. Gesù ce la spiega con la sua vita e soprattutto con la sua morte. Quando ha compiuto l’Opera che il Padre gli ha affidato? Quando ha redento l’umanità? Quando ha vinto sul peccato? Quando è morto in croce, annientato, dopo aver gridato: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Gesù è stato più forte proprio quando è stato più debole. Gesù avrebbe potuto dare origine al nuovo popolo di Dio con la sua sola predicazione o con qualche miracolo in più o qualche gesto straordinario. Invece no. No, perché la Chiesa è opera di Dio ed è nel dolore e solo nel dolore che fioriscono le opere di Dio. Dunque nella nostra debolezza, nell’esperienza della nostra fragilità si cela un’occasione unica: quella di sperimentare la forza del Cristo morto e risorto […]».[3]

«Ti basta la mia grazia; la forza infatti si manifesta pienamente nella debolezza».

È il paradosso del Vangelo: ai miti è promessa in eredità la terra[4]; Maria, nel Magnificat[5], esalta la potenza del Signore, che può esprimersi totalmente e definitivamente, nella storia personale e nella storia dell’umanità, proprio nello spazio della piccolezza e della totale fiducia nell’azione di Dio.

Commentando questa esperienza di Paolo, Chiara così suggeriva ancora: «[…] la scelta che noi cristiani dobbiamo fare è assolutamente in senso contrario a quella che si fa ordinariamente. Qui si va, veramente, controcorrente. L’ideale di vita del mondo in genere consiste nel successo, nel potere, nel prestigio… Paolo al contrario ci dice che occorre gloriarsi delle debolezze […] Fidiamoci di Dio. Egli opererà sulla nostra debolezza, sul nostro nulla. E quando è Lui che agisce, possiamo star certi che compie opere che valgono, irradiano un bene durevole e vanno incontro alle vere necessità dei singoli e della collettività».[6]

[1] Cfr. 2 Cor 11, 1-7a

[2] Cfr. 2 Cor 12, 10

[3] Cfr. C. Lubich, La forza del dolore, Città Nuova, 44, [2000], 12, p.7.

[4] Cfr. Mt 5,5

[5] Cfr. Lc 1, 46-55

[6] Cfr. C. Lubich, Dio opera sulla nostra debolezza, Città Nuova, 26, [1982], 11/12, p.59.

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