Thèrèse una vita per l’armonia

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Ci conosciamo da tempo, con Thérèse. Non è difficile perciò fermarmi ad ascoltare quella specie di diario molto personale che ha voluto regalarmi, qualche mese fa, in una pausa di lavoro. Scozzese di Glasgow, ripercorre più per riconoscenza che per nostalgia un viaggio a ritroso nella sua vita. “Ero una ragazzina molto sensibile, fin da piccola, tanto da intimorirmi se qualcuno mi guardava troppo a lungo – racconta, parlando sommessamente -. Però un giorno, mentre cantavo, i miei si sono accorti che mi ero tutta illuminata in volto, per cui è stato naturale propormi di studiare musica. Ma avrei dovuto vincere la timidezza, andando io stessa a chiedere lezioni di piano ad un’insegnante vicina di casa: presi coraggio, e iniziai a studiare. Si vede che la passione era proprio grande”. La famiglia di Thérèse non è ricca, ma felicemente unita: “Abitavamo in una casa piccola, ma sempre piena di amici. I genitori erano infatti aperti, si volevano bene non solo come marito e moglie, ma come amici. Vivevamo in un clima libero e gioioso: con papà si poteva discutere parecchio e su tutto. “Dal punto di vista religioso, papà era piuttosto razionale e faticava ad aver fede – ce l’avrebbe fatta più tardi -, mentre mamma ci instillava l’idea di aver confidenza con Dio, raccontandogli tutto. Per cui è stato quasi naturale che, ad un certo punto della vita, io abbia sentito anche l’attrattiva per la contemplazione”. Prepotente è comunque il fascino della musica: Thérèse a quindici anni studia piano e violoncello, e suona per la prima volta nell’orchestra della scuola: “Eseguivamo l’ouverture dai Maestri cantori di Wagner. Sono scoppiata a piangere dall’emozione, perché sentivo così fortemente la musica, che mi sembrava che molti cuori si fondessero in uno solo”. Superata la maturità, Thérèse è ammessa al conservatorio dove studierà canto lirico e contrabbasso. Thérèse si diploma e inizia a suonare nelle orchestre, tra cui come free lance in quella della Bbc diretta da maestri famosi come Thomas Beecham. Ma accanto alla musica, coltiva altri interessi. “Prendendo esempio da papà, avevo iniziato a seguire degli emarginati, alcoolizzati soprattutto, allora numerosi a Glasgow. La domenica sera, dopo la messa, con mio fratello minore suonavamo un duo di chitarre cantando canzoni folk, all’epoca – 1967-68 – di moda. Perciò, una parte della mia vita era tutta per la musica e un’altra per i barboni. In verità, sentivo in me un dissidio: seguire l’arte o vivere per aiutare gli altri? Una volta avevo addirittura pensato di studiare medicina per soccorrere gli emarginati… Così pregavo spesso Dio che mi facesse capire la mia strada”. Una sera, un amico italiano invita Thérèse in un certo posto chiamato “focolare”. “Dato che non pronunciava perfettamente l’inglese – racconta lei con umorismo -, ho capito invece “folklore”, per cui ovviamente ho aderito subito all’idea. Mi sono trovata con un gruppo cui una signora italiana, Doriana Zamboni, raccontava una storia di ragazze che vivevano il vangelo coi poveri durante la guerra e avevano scoperto Dio come amore. Un discorso che mi ha fatto una grande impressione. Avevo diciott’anni, parecchie amicizie – mio padre mi stuzzicava “Cosa aspetti, il principe azzurro?” -; ma io cercavo qualcosa di più grande. Ascoltando questa Doriana, intuivo che una vita come quella che lei descriveva avrebbe potuto forse essere la mia”. Thérèse prova a mettere in pratica quell’amore di cui s’è parlato, specie la frase “quello che hai fatto al più piccolo, l’hai fatto a me”. “Il giorno dopo si era in prova d’orchestra. Il collega vicino era un personaggio indisponente, che aveva l’abitudine di cantare forte le battute vuote, cosa che mi infastidiva: insomma, non ci si sopportava, e a fine prova uscivamo da porte diverse. Quella volta ho voluto provare a volergli bene ricordandomi la frase del vangelo: mi son morsicata la lingua per non rispondere alle sue bordate, così che alla fine mi fa: “Ma allora stai male. Cosa succede?”. Mi invita per un tè e mi accorgo che, vivendo il vangelo, non solo cambio io, ma anche chi sta intorno a me”. Thérèse si entusiasma: chiama due amici, e si incontrano nella soffitta di casa, dove lei solitamente prova al piano. “Abbiamo deciso di mettere in pratica il vangelo. La volta seguente eravamo in venticinque, tanto da chiedere a papà – sbalordito – di utilizzare il salotto di casa. È successo poi un episodio curioso: avevo dimenticato l’ombrello nella macchina di Doriana e mi son vista recapitare l’oggetto assieme all’indirizzo di questa signora italiana. Così mi è stato facile scriverle per invitarla a venire a trovarci, a vedere se andava bene come vivevamo: lei è venuta per un week-end in cui eravamo una settantina di persone”. Thérèse è comunque sempre alla ricerca del suo futuro in una vita intensissima fra il lavoro in orchestra, l’aiuto agli emarginati e l’impegno che ormai sta prendendo con il Movimento dei focolari, cui appartiene Doriana Zamboni. “Come dicevo, suonavo anche nell’orchestra della Bbc dove c’era un maestro che mi aveva preso a benvolere. Certo, la musica era tutto per me, era… come il sangue nelle vene; però ad un certo punto ho avvertito in me un pensiero: “Tu sarai felice solo lì”, cioè in una vita tutta per Dio. Dentro di me ho detto subito di sì. E sono cominciate immediatamente le difficoltà: grosse e varie. In particolare da parte del mio maestro, che ha fatto veramente di tutto per farmi desistere dall’idea. Mi diceva: “La musica classica è un fuoco che ti entra dentro e non ti lascia più; tu puoi anche andartene, ma prima o poi tornerai””. Thérèse invece è decisa, e a ventuno anni, nel ’71, lascia tutti per scendere in Italia, nella cittadella di Loppiano, a passarvi due anni di esperienza evangelica. Era naturale immaginarsi un periodo felice: “Mi sono subito ammalata di un’infezione misteriosa che mi aveva ridotto la voce a un filo e fatto perdere l’uso della mano destra. I medici sospettavano una sclerosi multipla o un tumore. Io stavo male, non potevo né cantare, né suonare per Dio, come sognavo se non – dal punto di vista artistico – comporre. Ma dentro di me ero molto provata, e a volte mi chiedevo se quello fosse davvero il mio posto, e pregavo insistentemente Dio di farmelo capire. Mi è arrivataimprovvisamente la risposta attraverso una lettera di Chiara Lubich che mi proponeva una frase del vangelo da vivere: “Non voi avete scelto me, ma io ho scelto voi”. Ho capito che Dio non voleva il mio diploma, ma il mio cuore. Poco dopo, si è scoperta la causa del malessere e la cura”. Subito le viene proposto, musicista completa qual è, di far parte del Gen Verde, dove lavora da trentadue anni. Ma nessun rimpianto, mai? “Anni fa, stavamo a Vienna, al Konzerthaus. Da una porta della sala è uscita l’ondata piena degli archi – i Wiener stavano provando – ed io d’istinto ho sentito in un attimo di nostalgia quanto profondamente amassi la musica. E nello stesso tempo ero felice di poter trasmettere ancora, attraverso essa, la bellezza di Dio. Con la possibilità di usare nuove espressioni. Ricordo che da giovane, in orchestra, ammiravo l’arpa, mi sarebbe piaciuto imparare a suonarla. Una sera, dopo uno spettacolo, una signora mi chiede: “Vorresti un’arpa celtica?”. E me l’ha regalata”. Thérèse continua dunque la sua “vocazione” di artista, con immutato incanto: “Ogni volta che mi trovo sopra un palcoscenico, mi sembra di vivere in una specie di miracolo; perché le difficoltà nella preparazione dello spettacolo si trasformano nella gioia che si sente nel provare a “non esistere” in modo che Dio, bellezza suprema, possa arrivare attraverso la musica e il canto. Da ragazza andavo dagli emarginati; ora credo che tramite la musica si possono lenire tante piaghe spirituali della gente. Lo fa la musica già di per sé; ma se poi un artista cerca di avere Dio nel cuor e punta a “non essere” perché passi Dio-bellezza, credo che riporta l’arte al suo disegno originale”. Vero. Ma come la mettiamo con la forte individualità degli artisti: non è che essere in un gruppo mortifica l’ispirazione personale? Thérèse è disarmante: “Certo io compongo, suono, canto. Ma la mia e nostra forza sta nel rapporto di amore evangelico fra noi, così che siamo una “unità” che non è di facciata, perché cadrebbe alla prima difficoltà (e le difficoltà non mancano). Però l’esperienza m’insegna che è proprio la musica il modello di questa vita. Penso alla polifonia dove simultaneamente si sovrappongono diverse melodie. Quando si vive la polifonia della vita, si può essere quel nulla che fa risuonare in noi gli altri, facendoci davvero liberi. “Così io mi sento di andare verso l’umanità di oggi, come da ragazza con i barboni, a dare speranza, a trasmettere la bellezza che risana”. D’accordo. Ma cosa è la bellezza per Thérèse? “È difficile dirlo; ma per me, avendo dato a Dio la vita, la bellezza è vedere la vita del cielo espressa sulla terra: sta a noi artisti mostrarla”.

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