The Hate u give e le nostre periferie
«L’odio che riceviamo da piccoli lo restituiamo, raddoppiato, quando siamo adulti». È una frase contenuta nel film The Hate u give, del regista George Tillman Jr, fedelmente basato sul romanzo, bestseller e omonimo, di Angela Thomas. Contro il concetto espresso in questa frase bisogna lottare, perché il boomerang di cui ci parla è un nemico concreto, pericolosissimo, tragico.
Se la pellicola – presentata nella selezione ufficiale della Festa del cinema di Roma 2018 – torna a bomba sul tema del razzismo tra bianchi e neri d’America, ci dice anche quanto le condizioni di povertà e di degrado sappiano soffiare sopra questa umana ferita, al di là di ogni regione o confine politico.
L’intelligenza del film – che non è privo di difetti, soprattutto per l’eccessivo adagiarsi sul testo di partenza, senza riempirlo di una costante, energica, autonomia cinematografica – sta infatti nel non analizzare soltanto l’umana malattia, ma nel mostrare come il germe di questa si propaghi attraverso le condizioni di disparità sociale che abitano i nostri paesi, le nostre città, il nostro mondo tutto.
Il film racconta questo aspetto della piaga attraverso Starr, un’adolescente di colore cresciuta nel quartiere ghetto di Garden Heights, a stretto contatto con storie di disagio, di miseria e criminalità.
Un luogo con barriere mentali ancora molto alte, dove per un giovane le strade con uscita sono spesso immaginarie, e si chiamano droga e violenza.
Da bambina, Starr ha visto morire la sua migliore amica: un criminale di colore, esponente della gang dominante nella zona, l’ha ammazzata per errore, in uno spazio come tanti altri nel mondo in cui lo Stato arriva soprattutto con la forza, per andarsene subito dopo averla esercitata, lasciando nuovamente soli i fragili.
Per fortuna, la ragazza ha una famiglia sana che la sostiene e la consiglia: due genitori che si amano e che trasmettono – a lei come a suoi fratelli – amore e speranza per il futuro.
Hanno scelto, proprio in funzione di questo, di iscrivere Starr in una scuola molto distante dal suo quartiere: un istituto frequentato soltanto da bianchi benestanti. Qui la giovane si autodefinisce “2.0”, ovvero una seconda versione di se stessa, creando di fatto una scissione tra le sue origini e il suo presente.
Fino a che una sera, in macchina con un amico di infanzia, la ragazza viene fermata dalla polizia e quel coetaneo a cui tiene moltissimo – che fu il suo fidanzatino da bambina – viene ucciso da un agente bianco per un motivo inaccettabile: il poliziotto ha scambiato la spazzola del giovane per una pistola.
Di colpo, Starr diventa la fondamentale testimone dell’omicidio, e perciò non riesce più a tenere unite le sue parti. Il conflitto interiore la obbliga a trovare la sua vera identità, ma soprattutto a prendere coscienza che la catena di morte che le ruota attorno va spezzata col lavoro di tutti, a partire dai gesti, piccoli o grandi, che ci sono consentiti, quelli alla nostra portata.
A partire dalla distruzione di un altro subdolo, criminale, sfuggente nemico: il pregiudizio. Ci sono un paio di sequenze che ben esprimono la complessità della faccenda.
Il primo è un dialogo tra Starr e la sua amica fintamente antirazzista, che ribadisce come il razzismo si annidi in noi nascondendosi astutamente; il secondo è tra Starr e suo zio, un poliziotto di colore che prova a spiegarle lo stato d’animo che può provare un suo collega di notte, in un contesto difficile, da solo in auto.
La paura che può assalirlo, la tensione provocata da tanta violenza già vista, vissuta, divenuta abitudine capace di alterare la realtà, fino a trasformare una spazzola innocua in una pericolosa pistola.
Il film, perciò, ci parla della tensione che la condizione difficile del prossimo può metterci addosso, del clima di ostilità che sottilmente il suo stato di abbandono ci scatena sottopelle.
Prima dell’empatia, che lentamente siamo chiamati a coltivare, e che è tanto complicato quanto piacevolissimo punto di arrivo, conquista che distende e costruisce, possiamo entrare in allarme: è un istinto che esiste, è inutile e dannoso negarlo.
Chi lo sottovaluta sbaglia come chi lo asseconda o lo cavalca. Contro questi impulsi ognuno di noi è chiamato a lottare, per il bene del prossimo e per quello proprio. Dobbiamo quotidianamente controllare l’umana patologia di ogni razzismo, cercare di fare il nostro massimo, rimanendone sempre e soltanto portatori sani.
Al contempo, però, dobbiamo lavorare con impegno sui fattori scatenanti, come quelli ribaditi con chiarezza da The Hate u give. Sforzarci di dare il nostro contributo al miglioramento delle condizioni difficili che la pellicola basata sul romanzo di Angela Thomas ben descrive.
Fare in modo, nel nostro piccolo, con i gesti che ogni giorno siamo chiamati a compiere, di non alimentare quell’odio che si restituisce raddoppiato – come dice la frase citata – ma di coltivare il suo contrario, che pure lui raddoppia, per fortuna, aprendo strade lunghe e spaziose, meravigliosamente sorprendenti.