The Crown, ultima stagione
È anche una serie sul confitto, The Crown: sul contrasto tra libertà e prigionia, tra pubblico e intimo, tra personale e collettivo. Tra grandezza e normalità, tra responsabilità e desiderio. Tra dovere e bisogno. Tra forza da dimostrare e fragilità da gestire.
Da una parte c’è la corona, con il peso del suo luccichio, col suo simbolo tanto pressante, a volte divorante, quanto brillante. Dall’altra le persone che la difendono, che la sostengono, o che vi entrano per qualche motivo in contatto. C’è questo tema di fondo, non troppo sotterraneo, a camminare senza sosta tra l’eleganza visiva e la scrittura mai noiosa di The Crown: di un monocorde dinamico, coinvolgente, della sua calma nervosa, di un pianeggiante vivace, e se questi ossimori stanno meravigliosamente in piedi, in The Crown, è grazie a dialoghi sempre notevoli, ai ritratti verticali dei personaggi nonostante cambino gli attori nel corso delle stagioni.
È grazie a un montaggio creativo che frammenta e ricompone in modo spesso straordinario, attraente, sorprendente. Grazie a una fotografia che rimane pittorica sia che illumini il verde plumbeo della Scozia o il caldo africano di un viaggio esotico, sia che attraversi i corridoi e i saloni dei palazzi inglesi, che lo splendore mediterraneo della costa azzurra.
C’è questa dialettica costante tra persone e istituzioni, ad alimentare il racconto storico, c’è la tensione tra monarchia e mondo interiore, tra l’umano e il politico. C’è questo motore che produce energia dentro la dettagliata biografia inglese – e non solo – ripercorsa nelle sei stagioni di quella che rimane una delle serie più importanti e pregevoli degli anni a cavallo tra i dieci e i venti del XXI secolo.
Si va – attraverso la costante (super)visione creativa di Peter Morgan, dal 1947 alla morte di Lady Diana e alle reazioni dei vari personaggi di fronte alla tragedia. Questo stando ai primi quattro episodi della sesta – e finale – stagione di The Crown, distribuiti su Netflix (come tutti gli altri) dal 16 novembre scorso.
Il viaggio è stato lungo, percorso senza accelerazioni particolari, con un passo riconoscibile e unico, con soste e divagazioni mai fuori luogo, con focus dedicati a questo o quel personaggio, anche minori. È stato un cammino denso di accadimenti non banalizzati: la crisi di Suez, la guerra delle Falkland, lo sbarco dell’uomo sulla Luna, per citarne alcuni. E di personaggi: Carlo, il Principe Filippo, la Thatcher, Tony Blair, Mohamed e Dodi Al- Fayed. Ovviamente la Regina Elisabetta II, in qualche modo al centro del coro, personaggio più vicino alla corona e protagonista tra i protagonisti, almeno fino all’arrivo di Diana Spencer, il cui ingresso in scena, all’inizio della quarta stagione, modifica inevitabilmente il cuore della serie.
Non tutti i sessanta episodi totali (davvero tanti) sono dello stesso valore, e non tutte le stagioni raggiungono lo stesso livello di intensità, ma tutte – almeno rimanendo alle 54 visionate (e godute) dal 2016 a oggi – comunicano tra loro per lo stile asciutto e nutriente, per lo splendore sobrio, per l’eleganza vistosa ma mai sovrabbondante, per il respiro della vita sotto il peso del grande gioiello, per le parole abbondanti e sempre meditate, per il Novecento che pulsa, in The Crown, senza trascurare gli esseri umani.
I volti e i cuori mai polarizzati, resi invece sanamente complessi. Essi vivono nel loro ambiente senza eccessivi e semplicistici manicheismi, proprio perché il loro agire, il loro essere, viene spiegato sempre nel rapporto con questo prestigioso e ingombrante oggetto d’oro e pietre preziose. Perciò, gli ultimi sei episodi diThe Crown, in arrivo a metà dicembre, hanno già il sapore della nostalgia.
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