Testimoni (o vittime) di giustizia?
«Senza giustizia non c’è dignità della persona». Parole sacrosante quelle del presidente Mattarella ai 318 nuovi magistrati in tirocinio, incontrati agli inizi di ottobre, che richiamano anche i recenti traguardi legislativi messi a segno dalla Commissione antimafia. Dal 27 settembre è in vigore il nuovo Codice antimafia che introduce parecchie novità in materia di corruzione e beni confiscati; inoltre sono finalmente in discussione in Camera e Senato i due ddl rispettivamente sui beni confiscati alla mafia e sui testimoni di giustizia.
La presidente Rosy Bindi si augura che diventino legge prima della fine della legislatura. «Per la prima volta lo Stato ha una strategia progettuale per colpire la mafia alla testa» – ha dichiarato Giuseppe Lumia, capogruppo Pd in Commissione Giustizia al Senato: – «I testimoni avranno finalmente un disegno di legge che riconosce la loro funzione importantissima nella vita del Paese». Sì, perché il provvedimento a loro dedicato mira a distinguere la posizione dei collaboratori di giustizia, i cosiddetti pentiti, da quella dei testi: cittadini e imprenditori che, essendo vittime o testimoni, danno uno specifico apporto alle indagini e per questo possono essere perseguitati da gruppi criminali.
Problema risolto dunque? A sentire Vincenzo Conticello, testimone di giustizia intervenuto a LoppianoLab, non si direbbe, anzi: questi uomini perennemente sotto scorta pagano un prezzo altissimo in termini di solitudine, paura, sradicamento, perdita del lavoro, dei legami famigliari e quindi di dignità.
Vittime due volte
Se paragonati ai collaboratori di giustizia che fanno più notizia, i testimoni – ad oggi 78 e 255 i loro famigliari – sembrano un po’ figli di un Dio minore: «Dal momento in cui denunci, da vittima della mafia diventi vittima delle istituzioni perché non sono realmente in grado di supportarti», spiega Conticello. La sua storia è emblematica: titolare di quell’autentico pezzo di storia palermitana che è l’Antica Focacceria San Francesco, ha iniziato a ricevere intimidazioni fin dal 2005; la richiesta di pizzo è arrivata poco dopo. Sono stati i “colleghi” ristoratori a denunciarlo alla mafia perché colpevole di legalità e dunque di rovinare la piazza. Immediatamente Vincenzo sporge denuncia, interrompendo una catena del silenzio durata 14 anni e nel 2007 testimonia in tribunale, denunciando i suoi aguzzini. Da qual momento resta intrappolato nel ruolo di vittima; dapprima rifiuta di cambiare nome e di lasciare Palermo, sostiene la nascita dell’associazione Addiopizzo, ma poi qualcosa s’inceppa e Vincenzo è costretto a partire, perdendo l’azienda per sempre.
La reale volontà di combattere la mafia
Dove si è bloccato il meccanismo? Conticello spiega che succede ogni volta che lo Stato non consente al cittadino di fare la vita di prima e quando quel cosiddetto “mondo di mezzo”, popolato da politici e amministratori pubblici corrotti, rema contro perché tutto rimanga com’è, e conclude: «Non c’è una vera volontà di combattere la mafia».
Se l’azione del legislatore non basta, occorre unire tutte le forze per ricreare un senso di comunità che oggi sembra disperso e il sacrificio di uomini come Conticello domanda in primis una “bonifica” della politica e delle amministrazioni pubbliche, come ha detto il Papa incontrando la Commissione antimafia. Ha indicato due livelli di intervento: il primo, quello politico, che richiede di mettere in atto una maggiore giustizia sociale: «perché le mafie hanno gioco facile nel proporsi come sistema alternativo sul territorio proprio dove mancano i diritti e le opportunità». Il secondo è quello economico: «attraverso la correzione o la cancellazione di quei meccanismi che generano disuguaglianza e povertà».