Testimone di un incontro

“Non volevo indulgere all’autobiografia. A 44 anni sarebbe stato da megalomani. Quello che volevo realizzare era una testimonianza generazionale. Ho condiviso con i miei coetanei libri, canzoni, smarrimenti, stupidità. Poi, a un certo punto, sono rimasto folgorato dalla persona di Gesù”. Quarto piano di viale Mazzini, sede Rai. Antonio Socci, vice direttore di Raidue e conduttore del programma Excalibur, è l’autore del libro Uno strano cristiano (Rizzoli), titolo mutuato dalla definizione che il direttore di Repubblica ha coniato per lui. Siamo entrambi senesi, ci siamo conosciuti a metà degli anni Settanta e abbiamo condiviso l’impegno politico e la passione a scavare i grandi temi e a guardare oltre. L’incontro con i carismi di due movimenti ecclesiali (lui nella scia di don Giussani) ha trasformato il senso delle nostre esistenze. Il libro è un credo delle verità rivelate e delle verità tue? “No. È un tentativo di descrivere la verità, per come ho potuto conoscerla finora. La verità è una persona, Gesù. Io ho offerto una testimonianza personale Quando ti presenti come intellettuale cattolico a difesa del cristianesimo, devi dire “io””. Se i colleghi che hanno criticato il tuo programma non si fossero soffermati a lungo sui tuoi maglioni, sulla barba, sugli occhi, avresti scritto questo libro? “Probabilmente no. Viviamo in una cultura provinciale – includendo il mondo giornalistico -, piena di conformismo e di pregiudizi, incapace di guardare alle grandi questioni. Mi è stato contestato, per esempio, da Edmondo Berselli il fatto che, in una puntata, io abbia chiesto agli esperti in studio se avessero fatto i conti con Dio. Con lo sbracamento che c’è in tivù, si possono porre anche le domande più private, ma non si può parlare del mistero del destino d’ogni persona. Questa è considerata la suprema oscenità. Davanti a questa cultura demenziale, il libro vuol indicare un orizzonte”. Se ne desume la tua visione della vita? “Non è solo la mia visione. La chiesa ci insegna una sguardo, quello di Maria. Per quanto duri di testa, se restiamo dentro questo cammino, quello sguardo, piano piano, lo assumiamo anche noi”. Emerge, per la mia sensibilità, una visione semplificata, dualistica: bene-male, vittime-carnefici, noi-gli altri. È così? “Una visione semplice, non semplicistica, del mondo. Certo, io penso che la verità sia una persona e la salvezza sia la chiesa. Ma da qui non discende che, per il fatto che io sono cattolico, sia dalla parte del giusto. Manco per idea. Il confine tra bene e male mi attraversa”. Nel rapporto con la cultura contemporanea, serve più un difensore della fede o un testimone? “Testimoni. Servono santi, non giornalisti. Questa però è la mia strada per poter arrivare, non dico alla santità, ma almeno ad esprimere gratitudine per quello che mi è stato dato”. Nel libro non hai fatto mai ricorso ad un termine molto usato da papa Wojtyla: dialogo. Una semplice dimenticanza? “Il libro stesso vuole essere un dialogo. Per me è la disponibilità a esporre le ragioni, a recepire le obiezioni e a tentare delle risposte”. Il dialogo presuppone considerare l’altro pari a sé. In Italia, vedi che ci sia questa condizione? “C’è bisogno di una reciproca lealtà nel dialogo, quella di sapersi mettere in discussione. In genere, questa parità non è negata dai cristiani. Piuttosto trovo un pregiudizio da parte della cultura dominante: che reputa di sapere cos’è il cristianesimo. Poi, dopo la beatificazione di padre Pio, viene scritto che il mondo si divide tra chi crede e chi pensa. Capisci. E nelle cronache del papa, adesso si parla della sua salute, non del contenuto dei suoi messaggi”. Stigmatizzi con energia che i cattolici sono perseguitati e dileggiati. Ma non è nel conto per chi segue Gesù? “È da mettere in conto, ma continua ad essere un’infamia. Soprattutto perché la cultura dominante rappresenta il cattolicesimo come oppressivo e oscurantista. Mentre con Gesù è entrato nel mondo qualcosa d’inaudito: che l’essere umano ha un valore assoluto, infinito ed è degno di essere amato”.

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