Tesori senza pace

Lo scempio delle opere d’arte nei teatri di guerra è un crimine che colpisce un’eredità dell’umanità. Gli esempi di Palmira e Beirut

 

Ogni qualvolta mi capita di visitare il bellissimo e purtroppo poco conosciuto dai romani Museo Nazionale di Arte Orientale “Giuseppe Tucci”, a due passi dalla basilica di Santa Maria Maggiore, non manco mai di soffermarmi davanti ad un rilievo funerario del III secolo d.C. contrassegnato da un’iscrizione in aramaico: raffigura a mezzo busto una dama riccamente abbigliata in atteggiamento pensoso, dietro cui spunta un bambino in tunichetta con in mano un grappolo d’uva e un uccellino. La bianca pietra calcarea conserva ancora tracce di colore rosso e nero e di doratura sui gioielli.

Questa scultura, simile ad innumerevoli altre oggi sparse nei musei di tutto il mondo, proviene dalle necropoli di Palmira, la regina del deserto siriano. Palmira, questo gioiello archeologico patrimonio Unesco, tornata alla ribalta per le distruzioni causate dai miliziani jihadisti. Tristissimo il bilancio delle vittime fra la popolazione, ma anche lo scempio di quanto di blasfemo e idolatrico, a loro dire, presentava il sito: fatti saltare con cariche di tritolo i famosi Templi di Bel e di Baalshamin, gli altrettanto celebri Arco e Tetrapilo, distrutto il proscenio del meraviglioso teatro, saccheggiato e vandalizzato il Museo archeologico, disseminate un po’ dovunque mine, ricoperte di graffiti propagandistici murature e colonne.

L’antica città carovaniera, già simbolo di incontro tra popoli, fedi e culture diverse, ne è uscita piuttosto malconcia, ma tutto sommato meglio di quel che si temeva. Malgrado le ferite ricevute, la bellezza dei suoi resti monumentali e delle colorazioni della pietra al sole del tramonto, per cui era famosa in tutto il mondo, ha prevalso. Intatti sono lo splendido teatro, dove i miliziani tenevano le loro feroci esecuzioni di massa, la spettacolare Via colonnata ed altri edifici. Col tempo qualcosa si potrà ricostruire e restaurare grazie anche al concorso internazionale, il Museo archeologico bersagliato dai colpi d’artiglieria risorgerà con le sue collezioni superstiti, ma nulla potrà sostituire la perdita di vite umane.

Tra le vittime la più illustre, che ha commosso il mondo: l’ottantaduenne archeologo Khaled al-Asaad, cinquant’anni dedicati a scavare e studiare Palmira, a custodirne la bellezza. Dopo tre interrogatori e 19 giorni di prigionia e torture per rivelare dove aveva trasferito al sicuro i reperti più preziosi, è stato sgozzato e appeso per i piedi ad un palo della luce. Prima di procedere all’esecuzione, i carnefici avevano acconsentito ad esaudire il suo desiderio di entrare un’ultima volta nel Museo che aveva diretto per quarant’anni e difeso a costo della vita.

Purtroppo la distruzione intenzionale dei monumenti non riguarda solo Palmira, per limitarci al Vicino Oriente. Senza contare, nei luoghi diventati teatro di guerra, quei siti archeologici abbandonati a sé stessi e perciò diventati facile preda di saccheggiatori. Si sa, quando una popolazione è ridotta alla fame, cerca di sopravvivere ad ogni costo, anche vendendo reperti trafugati o scavati “in proprio”. Così si disperdono o vanno in malora tesori storici e artistici che appartengono all’intera umanità.

Mentre ci auguriamo che in una Siria pacificata Palmira torni ad essere la “regina” di un tempo, conforta una notizia positiva riguardante un altro Paese mediorientale, il Libano, la cui capitale porta ancora i segni delle devastazioni di una guerra civile durata quindici anni. Oasi di silenzio e bellezza nel cuore di una metropoli moderna e caotica, il Museo Nazionale di Beirut è tornato ad esporre le testimonianze di una storia millenaria che va dalla preistoria al XIX secolo. A causa della sua posizione centrale, il grande edificio inaugurato nel 1942 –  una facciata ispirata alle architetture dell’antico Egitto – era diventato strategico per le fazioni in lotta e perciò fatto segno di colpi di mortaio e di bombe. I reperti più piccoli e vulnerabili erano stati ricoverati nel seminterrato, il cui accesso era stato murato, e protetti da uno strato di cemento i mosaici inseriti nella pavimentazione. Statue e sarcofagi inamovibili perché troppo pesanti, racchiusi in strutture di legno, erano stati anch’essi ricoperti da una colata di cemento divenuta un tutt’uno col pavimento.

Se si eccettua la perdita, durante uno dei tanti bombardamenti, di quarantacinque casse con documenti e reperti che non era stato possibile spostare, queste misure avevano preservato quasi tutti gli altri manufatti, anche se l’assenza di ventilazione, l’umidità e una infiltrazione d’acqua nei sotterranei ne avevano danneggiati parecchi.

Chi visita oggi questo Museo totalmente rinnovato con le sue meravigliose collezioni, che continuano ad essere incrementate da nuovi scavi, non immagina quanta creatività e quanto coraggio siano stati necessari a quanti erano preposti alla loro custodia.

Ultima, grazie anche alla cooperazione italiana, l’apertura al pubblico del seminterrato dove sono esposti alcuni dei pezzi più prestigiosi: la Tomba di Tiro, interamente affrescata con temi della mitologia greco-romana, e la raccolta – unica al mondo nel suo genere – di trentun sarcofagi antropomorfi. Confermano che fin dall’antichità questa è stata una terra multietnica il marmo d’origine greca, la tipologia che riecheggia l’Egitto e le diverse fisionomie scolpite di coloro che, reduci da altri Paesi, scelsero il Libano come ultima patria.

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