Tesori nascosti a Gaeta

Un invito a scoprire le testimonianze meno note di un ricco passato disseminate nel nucleo storico della città laziale e nei suoi dintorni
Rovine dell'ex convento di Sant'Agata, Gaeta

C’è la Gaeta balneare, giustamente rinomata per le stupende spiagge, cale e promontori che si susseguono in direzione di Sperlonga. C’è la Gaeta del Monte Orlando, il promontorio al limite occidentale del golfo che da essa prende nome: con i suoi 54 ettari di superficie, il più piccolo parco regionale urbano d’Europa, ma non per questo il meno interessante. Istituito nel 1986, offre dall’alto del suo tumulo verdeggiante un colpo d’occhio superbo sulla città e sul mare, eccezionale connubio di risorse naturali e storico-culturali: numerosi, infatti, in mezzo alla vegetazione mediterranea, sono i resti di varie epoche: dal celebre mausoleo di Lucio Munazio Planco, il console fondatore di Lione e Basilea, che domina la sommità del Monte col suo cilindro di pietra bianca, alle opere militari susseguitesi nel corso dei secoli.

C’è poi la Gaeta meno solare e vistosa, la cui nascosta bellezza va inseguita su e giù per i vicoli, le rampe, i fornici del suo quartiere medievale. È un intrico di viuzze, di alte mura, di case spesso dirute, dove – quasi sigillati – s’intuiscono, più che vedersi, orti e giardini pensili, preziosa risorsa alimentare al tempo delle incursioni saracene e dei tanti, dei troppi assedi. Vigila su tutto la mole del castello angioino-aragonese con annesse fortificazioni, grandi polveriere, batterie e cisterne, ultimo baluardo del regno delle Due Sicilie contro l’esercito assediante del regno di Sardegna (1860-61); mentre, a pochi passi dal porticciolo, il bellissimo campanile romanico segnala la presenza del duomo, simbolo insieme al castello di questa cittadella double-face, un po’ fortezza militare fin quasi ai nostri giorni, un po’ fortezza dello spirito, per quanti monasteri e chiese la costellarono.

Fra queste, come tralasciare la Santissima Annunziata e il suo gioiello rinascimentale: la cappella della Grotta d’Oro con l’Immacolata dipinta da Scipione Pulzone? Pregando davanti a questa immagine, papa Pio IX, esule a Gaeta dal novembre 1848 al 1850, fu ispirato a proclamare il dogma dell’Immacolata. Nei tristi e tumultuosi tempi che lo costrinsero a mettersi sotto la protezione dei Borbone, il pontefice volle forse additare come modello di ogni virtù e fonte di speranza in ogni traversia l’unica creatura che Dio volle preservata dal peccato originale in vista di Cristo. Per questo, Gaeta è chiamata anche città di Maria: lo attestano le tante edicole sacre a lei dedicate e sparse fin negli angoli più remoti del suo centro antico.

Ma non è tutta qui la città che si dice fondata da Enea reduce da Troia e di cui la storia ricorda i legami con Bisanzio, la floridezza raggiunta trafficando con l’Oriente, il contributo alla vittoria definitiva sui turchi a Lepanto e quella vocazione marinara che ebbe come massimi rappresentanti i Caboto. Non è tutta nel silenzioso isolamento del suo nucleo storico, Gaeta, ma va cercata anche nelle tracce meno evidenti lasciate a ridosso dei suoi arenili, nei più riposti angoli del suo entroterra collinare, fin quasi al confine col territorio comunale di Itri.

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Va cercata: è la proposta fatta da Jason R. Forbus, figlio di un ufficiale statunitense di base nella città laziale, laureato in sociologia ed ora consulente per le Nazioni Unite, col suo Tesori nascosti a Gaeta (AliRibelli Edizioni), un po’ rivisitazione di luoghi frequentati nella prima giovinezza, un po’ guida alla scoperta delle testimonianze meno note e difficilmente accessibili di un ricco passato, riconsiderate con amore e accompagnate con immagini fotografiche fortemente evocative.

Sono ruderi di epoca romana come il monumentale sepolcro ormai “affogato” nelle strutture edilizie moderne a ridosso del lungomare Caboto, come il mitreo che parla di riti misterici in località “Le Grotte”, alle falde del Monte Cefalo, come il grandioso cisternone in località San Vitale, le cui umide volte suggeriscono all’autore i versi «Abbarbicata/alla grotta del silenzio/ la parola/da secoli attende/di scorrere ancora»; o come le “Grotte di Sant’Agostino”, all’estremità settentrionale della lunga spiaggia di tal nome: in realtà ambienti voltati appartenuti ad una villa databile tra la metà del I secolo a. C. e il II d. C., divenuti covo, secondo la leggenda, dei briganti che un tempo spadroneggiavano nel territorio.

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Sepolcreto marittimo.

A questi, si aggiungono ruderi medievali, come quelli del monastero di Colle Sant’Agata, che nel 1806 durante l’assedio di Gaeta ad opera delle armate napoleoniche servì da rifugio al colonnello borbonico Michele Pezza (il famoso Fra’ Diavolo), quelli del monastero di Santo Spirito di Zannone, nella piana d’Arzano, inaccessibile perché racchiuso tra le rovine moderne dell’ex raffineria Eni, fra cisterne e ciminiere che stridono con la bellezza del paesaggio; e quelli, sempre nei pressi, della chiesa di Sant’Ambrogio con tracce di affreschi medievali, oggi ricovero per un pastore che funge anche da cicerone per i rari visitatori di questo monumento dimenticato.

Non solo di rovine però si parla. Il tratto ferroviario dismesso che un tempo collegava la stazione di Gaeta, col suo lunghissimo tunnel buio e sinistro, è occasione per rievocare scorribande giovanili in un posto abbandonato che offriva una quantità di svaghi e irripetibili tramonti. E sopra una collina prospiciente la spiaggia di Sant’Agostino quella che fu, ed ora appartiene a privati, la casa di Sebastiano Conca, il celebre pittore gaetano vissuto tra il 1680 e il 1764, le cui opere sono esposte nei maggiori musei mondiali. Qui Forbus fornisce un racconto letterariamente impegnato e coinvolgente di quella che immagina sia stata l’ultima giornata dell’artista giunto al suo tramonto.

Certo, il volume non dà conto di innumerevoli altri “tesori” disseminati nell’agro gaetano, nonché nel centro storico medievale e nel borgo parallelo al lungomare Caboto. «Gaeta è un luogo dove un animo sensibile può soddisfare il suo desiderio di bellezza – conclude l’autore –. Un attimo cullato tra le onde del mare, quello dopo con l’orecchio teso al vento, che tra rovi e rovine senza nome ti parla di un mondo che è stato». Il suo vuol essere un invito a «“trovare il cercare”, richiamando a sé il desiderio di scoperta che, in ultima analisi, ci rende uomini e donne consapevoli del nostro cammino per le vie del mondo».

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