Terzetto fraterno
Siamo al diciannovesimo tentativo di Ludwig – un filosofo che ha scritto un trattato di logica – di rientrare nel menage famigliare con le due asfissianti sorelle. Ricoveratosi volontariamente nell’ospedale psichiatrico di Steinhof, torna a casa malvolentieri e solo per brevi intervalli, su insistenza della sorella maggiore che lo vorrebbe definitivamente a casa. Due sorelle attrici, ma prive di talento, figlie di un ricco industriale, che vivono chiuse con le loro manie nella vecchia casa dei genitori, dove nulla deve cambiare, condannate a una esistenza immobile. Ritter/Dene/Voss sono, nel titolo, i tre nomi reali degli attori del Burgtheater per i quali Thomas Bernhard aveva scritto la pièce e che per primi la recitarono nel 1986 a Salisburgo. L’autore austriaco in questa presentazione tragicomica compone con distruttivo sarcasmo un terzetto fraterno, dal rapporto morboso, calato in un assurdo quotidiano. Tra depressioni ed euforie il dramma del trio, legato dalla mancanza di comprensione, avanza a spirale attorno ai preparativi di un pranzo e, subito dopo, all’arrivo dell’amato fratello, della sua consumazione. Scaturiranno insoddisfazioni represse e rancori. Ludwig, dapprima calmo nelle maniacalità ripetitiva dei discorsi che esprime in rivolta contro i luoghi comuni, la medicina e l’arte, e poi in preda a crisi isteriche con conseguenti danni a suppellettili e servizi di casa, non risparmia bordate verbali alle sorelle. Fino a sgretolare la fortezza della loro identità e del loro mondo borghese. L’assoluto pessimismo di Bernhard è condensato in questa pièce che tradisce una smorfia diffusa di dolore per lo smarrimento del senso della vita (domanda che pone il protagonista). Da un plot rigoroso, Bernhard rimescola le carte in un gioco continuo di rovesciamenti che ci divertono e ci freddano allo stesso tempo. Non si capisce dove finisca la realtà e inizi la pazzia. Il regista Piero Maccarinelli, nell’attuale edizione del Teatro di Roma, spinge il pedale verso il comico, affidando totalmente la scena al carattere di tre grandi attori, requisito in assenza del quale – per dichiarazione esplicita dell’autore – è estremamente difficile rappresentare questo testo. Si ride molto soprattutto con Maria Paiato, autentica rivelazione nelle inedite corde ironiche, spassosissima nel tratteggiare una nevrosi ben controllata nell’apparente padronanza di sé. E Manuela Mandracchia, esteriormente indifferente da tutto e sicura di andarsene via per recitare, fa crescere la sua perfidia con febbrile sottigliezza. Quando, nel secondo atto, arriva Massimo Popolizio a dare corpo con la sua magniloquente espressività a tutto quello che le due sorelle hanno descritto del fratello per quarantacinque minuti, il terzetto diventa assolutamente irresistibile. Come nella scena in cui lui sposta e capovolge i quadri dei genitori e dei parenti nel vano tentativo di dare un nuovo senso alle cose; e ordina alle sorelle che gli vengano mostrati i loro ritratti nascosti in soffitta e dipinti a sua insaputa, fatti per la vanità di immortalarsi. Una interpretazione, dall’inizio alla fine, di alto livello, che candida la messinscena fra le migliori della stagione in corso.