Terremoto dell’Irpinia, la tragedia quarant’anni dopo
Il 23 novembre 1980 era una domenica di fine autunno. Di sera, chi era in casa guardava la TV. Molti erano per strada anche perché non faceva ancora tanto freddo. Tanti erano a Messa. Alle 19.34, una scossa di magnitudo 6.9, di intensità valutata in seguito del X grado della scala Mercalli, colpì vaste zone della Campania e della Basilicata, con epicentro tra Teora e Castelnuovo di Conza. Durò 90 secondi, ma sembrò interminabile. In un minuto e mezzo, interi paesi dall’Irpinia al Vulture, nelle province di Avellino, Salerno e Potenza, furono rasi al suolo. Alla fine si contarono circa 3.000 morti, 9.000 feriti e oltre 300.000 sfollati.
Anche nel resto della Campania ci furono morti, danni e distruzione. A Napoli, in Via Stadera, non lontano dal carcere di Poggioreale, crollò un intero palazzo, quasi certamente per difetti di costruzione, e provocò 52 morti. Dappertutto i sopravvissuti uscirono di casa e si riversarono per le strade, trascorrendo la notte nelle auto o in ricoveri di fortuna. Si cominciò a scavare a mani nude. Le comunicazioni erano bloccate. La Protezione Civile non esisteva ancora, nacque proprio dopo questa grande tragedia, per iniziativa dell’onorevole Giuseppe Zamberletti, nominato Commissario Straordinario per l’emergenza terremoto. Il bilancio dell’evento cresceva mano a mano. L’Esercito e i volontari, arrivati da tutta Italia, si facevano strada in mezzo alle macerie. Interi paesi erano isolati. Mancava tutto, a partire dalle bare. In tutte le città, grandi e piccole, le parrocchie e le diocesi si mossero per sostenere le persone più colpite attraverso la Caritas, collaborando con le istituzioni pubbliche. Si faceva il censimento dei senzatetto, si cercavano alloggi di fortuna, si distribuivano i beni di prima necessità giunti dal resto dell’Italia e dall’estero. L’emblematico titolo a nove colonne del Mattino, “Fate presto”, rappresentava il grido di un’intera popolazione, colpita in modo violento e inaspettato, che aveva subito lutti e perdite gravissimi.
Il presidente della Repubblica, Sandro Pertini, dopo appena due giorni, visitò le zone terremotate e con il suo modo di fare franco e senza fronzoli diede una sferzata all’inefficienza e alla disorganizzazione che per le prime ore aveva segnato i soccorsi:
«Italiane e italiani – affermò Pertini con tono fermo ed esigente – sono tornato ieri sera dalle zone devastate dalla tremenda catastrofe sismica. Ho assistito a degli spettacoli che mai dimenticherò. Interi paesi rasi al suolo; la disperazione dei sopravvissuti vivrà nel mio animo». Dopo aver ricordato che le leggi precedentemente approvate sulle calamità naturali non erano state applicate per la mancanza dell’attuazione dei regolamenti, esortò tutti a fare la propria parte: «Si cerchi subito di portare soccorsi ai superstiti e di ricoverarli non in tende ma in alloggi dove possano passare l’inverno e attendere che sia risolta la loro situazione. […] A tutte le italiane e gli italiani: qui non c’entra la politica, qui c’entra la solidarietà umana, tutte le italiane e gli italiani devono mobilitarsi per andare in aiuto a questi fratelli colpiti da questa nuova sciagura. Perché, credetemi il modo migliore di ricordare i morti è quello di pensare ai vivi».
Anche Papa Giovanni Paolo II, il 25 novembre, visitò Potenza e volle, poi, recarsi a Balvano, un piccolo paese di tremila abitanti, le cui case avevano resistito alla violenza del terremoto, ma che aveva subito un lutto enorme: per il crollo del campanile, durante la Messa Vespertina, erano morte settantasette persone, tra cui sessantasei giovani e bambini. Davanti alla scuola del paese dove, sui banchi, erano stati deposti i corpi delle vittime, il Papa si fermò e, salito su un banco lasciato fuori, aprì il suo cuore al paese che non aveva più lacrime.
«Miei carissimi fratelli e sorelle, io non sono venuto qui per curiosità, ma come vostro fratello e vostro pastore, vengo per un motivo di solidarietà umana, vengo per un motivo di compassione, carità – affermò il Papa polacco –. Sono venuto per dirvi che vi sto vicino. Cristo ha detto all’apostolo Pietro: “Conferma i tuoi fratelli”. Non posso confermarvi con le mie forze umane, con le mie possibilità umane, ma posso confermarvi, nel senso che possiamo insieme trovare la forza di Gesù, nella nostra fede e nella nostra speranza, nella sua carità che è maggiore di tutte le sofferenze e anche della morte, perché anche con la morte questa sua carità ci apre la prospettiva della vita. […] Vi porto soprattutto la testimonianza viva della mia presenza, della mia compassione, del mio cuore, e di un ricordo speciale che voglio conservare di questo paese, di tutti i paesi vicini, di tutti i sofferenti, di tutta questa zona, dell’ambiente così provato, della vostra patria provata in queste regioni, di tutti voi come cristiani e come fratelli».
Papa Francesco, durante l’Angelus di domenica 22 novembre 2020, ha ricordato il sisma del 1980, con queste parole:
«Desidero inviare un pensiero speciale alle popolazioni della Campania e della Basilicata, a quarant’anni dal disastroso terremoto, che ebbe il suo epicentro in Irpinia e seminò morte e distruzione. Quarant’anni già! Quell’evento drammatico, le cui ferite anche materiali non sono ancora del tutto rimarginate, ha evidenziato la generosità e la solidarietà degli italiani. Ne sono testimonianza tanti gemellaggi tra i paesi terremotati e quelli del nord e del centro, i cui legami ancora sussistono. Queste iniziative hanno favorito il faticoso cammino della ricostruzione e, soprattutto, la fraternità tra le diverse comunità della Penisola».
Dopo quarant’anni c’è ancora chi vive in abitazioni precarie, nonostante siano stati spesi fiumi di denaro, molto spesso sprecato, per una buona parte deviato. Ci sono stati numerosi processi e inchieste (fu istituita anche una commissione parlamentare), ma non si è mai fatta completa chiarezza sulle speculazioni e sulle effettive responsabilità.
In Campania, nelle principali città, furono costruiti nuovi quartieri dove accogliere le famiglie rimaste senza casa. Dovevano rappresentare una riqualificazione sociale e materiale, ma sono diventati ghetti, dove pochi cittadini onesti cercano di resistere alla criminalità: quelle periferie urbane tristemente note per malaffare, spaccio e fatti di cronaca nera.
Nella zona del cosiddetto cratere, ci sono state realtà virtuose dove, grazie all’impegno di piccole comunità e associazioni di cittadini, alcuni paesi sono riusciti a crearsi un futuro diverso. Altri non hanno saputo rialzarsi da un’atavica arretratezza, peggiorata dalla perdurante carenza di infrastrutture e dallo svuotamento da parte della popolazione più giovane.
Questo ennesimo anniversario, segnato anche dalla pandemia, rende più doloroso il ricordo e amaro il rammarico per la mancata rinascita di intere zone della nazione.