Terra Santa, inchiodati alla violenza

Si può uscire dalla tragedia della guerra in Terra Santa? Sono le stesse le domande ai due lati del confine.
(AP Photo/Hatem Moussa, File)

Ora è il tempo delle armi. Il tempo in cui la violenza prende il predominio, ruba la scena. La tragedia raggiunge il climax. E come in ogni tragedia, quando all’ultimo atto tutte le porte si chiudono, quando il destino sembra segnato in modo irreversibile, si diventa ciechi a ogni soluzione. E si decide per la morte. Si diventa inesorabili. Come alle volte lo è la natura. Che in quel già martoriato Afghanistan, obbedendo alle cieche leggi delle placche tettoniche, ha provocato pochi giorni fa un terremoto devastante, che ha causato migliaia di morti. Passati in secondo piano dalle news, perché meno “interessanti” di quelli di Israele e Gaza.

Ma noi umani abbiamo intelligenza e coscienza, possiamo fare meglio delle cieche placche tettoniche. Possiamo prendere coscienza che dalla tragedia si può uscire. Che si può interromperne il corso, prima di alzare il sipario sull’ultimo atto. Che si può stracciare il copione, e cercare nuove soluzioni. Ma in queste ore, ciò non sembra possibile. Si è inchiodati alla violenza. Si è frastornati dall’orrore per quanto è avvenuto.

Le situazioni storiche che hanno portato a tensioni e conflitti tra lo Stato d’Israele e il popolo palestinese sono intricatissime. Noi qui dall’occidente non le capiamo affatto, anche se pensiamo di capirle. Eric Emmuanuel Schmitt, nel suo libro La sfida di Gerusalemme, le sintetizza così: «Qui non si tratta di una battaglia tra il bene e il male né di un attacco del vero contro il falso, si tratta di due concezioni del bene inconciliabili, di due verità che si escludono a vicenda. Israele ha ragione, la Palestina ha ragione».

Insomma, un collo di bottiglia, gravemente peggiorato negli ultimi decenni dalla presenza a Gaza di Hamas. Un’organizzazione terroristica che non ha certo in agenda il benessere della gente che governa. E che si è lanciata in un’azione criminale contro Israele – da condannare senza se e ma –, che peggiorerà gravemente le condizioni del già martoriato popolo palestinese. Quando è il tempo delle armi si è da una parte o dall’altra, non ci sono vie di mezzo.

Anche se il più delle volte, ci si trova da una parte o dall’altra senza aver fatto alcuna scelta. Il riservista dell’IDF (Israel Defense Forces) che rispolvera la divisa messa sotto naftalina, saluta moglie e figli e va al fronte, lo fa semplicemente perché è nato israeliano. Nella sua mente c’è la domanda: “Tornerò? Che ne sarà di loro?” La ragazza ventenne di Tel Aviv che si mette l’elmetto, posa i peluches sul letto, bacia la mamma e parte, si chiede: “Ci sarà un futuro per me?

La stessa domanda se la fa la ragazza di Gaza, che attende con terrore l’invasione di Tsahal (in ebraico, le Forze armate israeliane). E se la fa il padre, che a Gaza si affanna per trovare il modo di mettere al sicuro la sua famiglia, e si chiede: “Sarà possibile?Stesse domande, dai due lati del confine. Che fare quando si scatena la tragedia?

Mi vengono in mente tante cose da dire, ma le depenno una dopo l’altra. Perché mi paiono tutte banali. Anche il silenzio sembra banale. Anche il pregare sembra troppo poco. Si rimane con un forte dolore nel petto. E, se non altro, con la consapevolezza che le semplificazioni, le facili speranze, i commenti azzardati, le prese di posizioni ideologiche, gli slogan, sono inutili e deleteri. Specialmente oggi.

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