Terra Santa e il rischio di una guerra incontrollata
Parrebbe quasi che si stia giocando al tutti contro tutti, dalle parti della Terra Santa. I campi opposti non sono più granitici, e gli interessi dei singoli Stati sembrano prevalere sugli interessi della propria parte. È il destino del prolungarsi delle guerre con lo spettro di sconfitte parziali o locali, che spingono i singoli attori ad adottare strategie d’uscita che non sempre coincidono con gli interessi degli attori principali in campo. Così Biden, anche a fini elettorali interni, circa di prendere le distanze dall’abbraccio finale con Netanyahu; e così il ministro Gantz invoca elezioni per settembre, rompendo l’uninimità di facciata della politica israeliana; così gli iraniani, offesi dall’incursione missilistica israeliana contro la sua sede diplomatica a Damasco, si interrogano sul tipo di risposta da dare, con il rischio di un allargamento del conflitto agli Hezbollah libanesi, esponendosi però a ritorsioni anche sul proprio territorio; così gli houti yemeniti continuano a minacciare i transiti commerciali nel Mar Rosso, cercando di essere selettivi, ma non riuscendovi sempre, danneggiando così anche la propria parte; così le Ong che prestano aiuto umanitario nella regione mediorientale, dopo l’uccisione di sette cooperanti per mano dell’esercito israeliano a Gaza, si chiedono se il gioco valga la candela; così i palestinesi stretti attorno a Rafah, presi tra il muro dell’esercito egiziano e le testuggini di quello israeliano cominciano a interrogarsi sulla convenienza dell’appoggio ad Hamas…
E così i russi gongolano per la minore attenzione posta dalla Nato sul conflitto con l’Ucraina per Crimea e Donbass, sulle vicende del Sahel su quelle siriane, ma attendono di capire quali siano gli sviluppi dei vari conflitti per reagire; così i sauditi non non sanno più con chi dei contendenti stringere alleanza, se con il campo occidentale o con quello russo cinese; e così nel deserto tra Iraq e Siria si assiste a un tentativo di ricostruzione del Daesh; così pure ci si interroga sulle motivazioni più vere del tragico attentato al Teatro Crocus di Mosca… E si potrebbe continuare ad libitum, integrando nell’analisi la crisi armeno-russo-azera, le elezioni in Turchia che hanno indebolito il potere di Erdogan, il ruolo in tutto ciò della Cina che non ha solo mire su Taiwan, le estenuanti condizioni di vita nella regione di Idlib, e in generale nei vari Kurdistan… Chi ci capisce più nulla?
Questa è la guerra, che sollecita i peggiori sentimenti, che fa diffidare di tutti, anche degli amici, che porta comunque a distruzioni, morte e migrazioni. Tuttavia, si può facilmente intuire come l’attuale destabilizzazione in Terra Santa sia frutto dell’ormai tramontata bipolarità di questo mondo; anche se si riscontrano ancora certe chiare distinzioni tra blocco occidentale (Nato, Usa, Europa, Israele, ma anche Giappone, Corea e Australia) e il blocco orientale (Russia, Cina, India, Iran, e vari Paesi satelliti), in realtà non esistono più due gendarmi del mondo, Russia e Stati Uniti, ma vari attori mondiali e regionali che cercano di trarre il massimo profitto dagli attuali conflitti, con una serie di accordi a geometria variabile che mettono in dubbio la reale forza delle singole potenze.
Pensiamo ad esempio alla Turchia, membro della Nato ma legata a Russia e Iran per la questione siriana, con un occhio di riguardo per le potenze cinese e indiana, per via delle sue influenze in Asia centrale e sulla Via della seta, mentre mantiene posizioni ambigue sul quadrante libico e algerino. Da che parte sta la Turchia? Dalla propria parte, questa è la realtà. E questo vale, a ben guardare, anche per la Francia, per la Germania, l’Italia, gli Emirati, il Pakistan, il Brasile, il Sudafrica… Nessuno ha più realmente il controllo del pallino, l’Onu è stata resa inoffensiva, se non accessoriale, i vari G6, G7, G8 e G20 o G21 stentano a sistemare le alleanze in campi ben distinti.
Non va dimenticato il fatto, poi, che le guerre attuali vengono giocate su più livelli, di cui il militare è il più appariscente, ma non certo il solo: si pensi alla guerra digitale, a quella commerciale e a quella finanziaria, a quella dell’intelligence, all’uso delle migrazioni come una ricetta politica… La guerra mondiale non è più solo a pezzi, ma stratificata e diffusa. In un tale contesto, in cui gli attori si lanciano sfide sempre più aggressive – inaudito è stato l’attacco israeliano a una sede diplomatica straniera in un Paese terzo, perché fa saltare per aria anche le ultime convenzioni internazionali per il mantenimento di un certo fair play tra Stati –, è possibile che un certo fatto, anche minore, accenda le polveri di un conflitto militare diffuso.
Unico antidoto possibile sono i popoli e quella cultura di pace che pur esiste in ogni angolo del pianeta, ma che manca di una dimensione realmente mondiale. L’interconnessione e l’interdipendenza dei popoli, delle culture e degli Stati è un dato di fatto: si tratta di mettere a questi legami una valenza positiva, e non solo conflittuale, di creare un movimento mondiale per la pace, sull’esempio di quanto è successo per la questione ecologica. A Roma, a Mosca, a Parigi, a Ryad, a Washington, al Cairo, a Brasilia, a Johannesburg… Prima che sia troppo tardi.