Teologia spirituale, persona e collettiva, iniziativa di Dio…
Dopo la presentazione e la lettura della pagina di Chiara Lubich "Guardare tutti i fiori", i partecipanti al Seminario di teologia spirituale hanno tenuto una tavola rotonda. La trascrizione degli interventi registrati conserva l’immediatezza e la freschezza del dialogo.
Carmelo Mezzasalma: Chiara dice che “Il guardare tutti i fiori è avere la visione di Gesù, di Gesù che, oltre ad essere il Capo del Mistico Corpo, è tutto: tutta la Luce, la Parola, mentre noi ne siamo parole”. Siamo di fronte al discorso della piena contemporaneità che stiamo vivendo in questo momento. Tutti noi sappiamo che la storia che viviamo e sulla quale ci interroghiamo non si salva, perché non ha un senso. Chi salva la storia è Gesù. È la scoperta che si fa anche studiando, perché ci si interroga sul motivo che spinge gli uomini a distruggere con la stessa facilità con la quale costruiscono.
Entrare nella piena contemporaneità significa entrare in quella azione missionaria che, p.e., Teresa d’Avila o Teresina non hanno potuto vivere. Oggi siamo invitati a camminare insieme agli uomini, ad essere con loro un cuor solo e un’anima sola, in una Chiesa che nel Vaticano II si è riscoperta comunione. La domanda è: perché la Chiesa si scopre in questo tempo Chiesa di comunione?
Oggi c’è una grande sofferenza e un grande individualismo che porta a grandi fantasie e soprattutto alla difficoltà di relazione. Le persone oggi comunicano con l’unico linguaggio che hanno, il corpo, ma nella sua espressione talmente immediata che non ha parola. La spiritualità dell’unità ci offre una convinzione di fondo che riempie un vuoto e permette alle persone di ritrovarsi insieme. Questo possiamo offrire agli altri, amandoli. Vivere tutto nella Chiesa, anche l’organizzazione, con la convinzione di fondo che stiamo realizzando la presenza di Dio in mezzo a noi. Lui c’è, ma è compito nostro trasmettercelo gli uni gli altri. Ravvivare le convinzioni sull’esempio di Gesù abbandonato che si è donato interamente, che è morto, ha sofferto fino in fondo. Quel grido è la preghiera più bella che Gesù abbia potuto dire, perché ha pensato a tutti noi. Gesù in quel momento aveva presente tutta l’umanità e ha risposto all’odio con l’amore.
Chiara ci invita a superare la ferita narcisistica della nostra epoca. Il Vaticano II ha detto che la Chiesa è un popolo dentro il mondo dei popoli e non contro. È veramente preoccupante assistere oggi a uno spasmodico bisogno di organizzazione, di burocrazia. Accetto le istituzioni, ma quando manca la presenza di Dio e dell’altro, allora è terribile. E le divisioni crescono, perché ciò di cui abbiamo bisogno è l’unità. Non si tratta di un discorso devozionale. Oggi la storia ci obbliga a curarci insieme: una persona ferita o depressa guarisce amando e sentendosi amata.
Carlos Garcías Andrade, cfm, docente al Claretianum: Vorrei offrire tre categorie dal punto di vista della dogmatica. La prima è la reciprocità: io non posso mettermi davanti a Dio da solo. A livello esistenziale questo significa prendere coscienza che ho bisogno degli altri e del rapporto con gli altri. E questo coinvolge anche la mia santità: non posso diventare santo da solo, perché gli altri hanno una parte essenziale nella mia santità. Non può esserci una spiritualità – che di per sé è sempre trinitaria – che non fa riferimento al Padre, al Figlio e allo Spirito Santo, e che non viva, nell’ambito interpersonale, lo stesso rapporto trinitario.
La seconda categoria è quella della “nuova creazione”, l’essere “in Cristo”, Cristo in me e in te, che presuppone la coscienza che la “vecchia creazione”, un mondo “indipendente” da Dio, non esiste più. Occorre sviluppare il significato del Cristo risorto che “riprende” la divinità e che contiene in sé il mondo. Per cui, ad esempio, è possibile fare l’esperienza di Dio insieme con un credente di un’altra religione, perché anche lui appartiene a Cristo. Quando san Paolo parla dell’essere in Cristo, sta mettendo le basi per questo discorso.
La terza categoria è storica. Con Chiara appare un nuovo paradigma. Dopo quello cosmocentrico (medioevo), dopo quello antropocentrico (modernità), appare il paradigma della intersoggettività come luogo teologico della manifestazione di Dio. Se penso alle giovani generazioni che hanno la difficoltà a fare una esperienza di Dio, perché hanno perso la religiosità naturale o della interiorità, la via della intersoggettività può essere la più adatta.
Michel Vandeleene: Mi viene in mente la frase di Gesù: “che tutti siano uno, perché il mondo creda” (cf. Gv 17, 21). Quante persone hanno creduto per la testimonianza delle persone che erano unite per l’amore reciproco! Ogni carisma non è atemporale. Chiara stessa, leggendo il suo carisma, lo ha inserito nel momento storico, dalla guerra e dal dopoguerra in poi.
Germán Sánchez Griese: Quando una persona conosce e vive il proprio carisma, tutto quello che fa è frutto di questa conoscenza, di questa vita, di questo amore. Chiara ce ne dà un esempio illuminante, così come tutti quelli che, facendo propria la spiritualità di comunione, collettiva, possono diventare santi grazie al carisma. La persona è frutto della vita di comunione. Bisognerà allora presentare a tutti, in una forma convincente e adeguata, questo carisma. So ad esempio che tanti religiosi e religiose, grazie al carisma di Chiara, riscoprono il loro carisma. La spiritualità dell’unità non li allontana dalla propria spiritualità, ma la fa ritrovare. È un frutto del carisma che Dio ha donato a Chiara e di cui tutti possiamo usufruire.
José Damián Gaitán: Tutti noi, che siamo nel mondo dell’insegnamento della teologia spirituale, dobbiamo darci una mano per fare cultura, per fare una “nuova” teologia spirituale, adatta al nostro tempo, una teologia spirituale “di comunione”. Ci sono tanti limiti nell’attuale impostazione della teologia spirituale. Dobbiamo fare in modo di non continuare a ripetere degli schemi che non servono più nemmeno a noi. Anche io ho difficoltà a tradurre queste cose. Per questo è importante per me un dialogo tra di noi, perché mi accorgo che non ho gli strumenti culturali adeguati, anche se ho la sensibilità per capire.
Nell’enciclica Spe salvi Benedetto XVI si chiede: come siamo risusciti a rendere la vita cristiana individuale, quando la vita e l’escatologia cristiana sono comunitarie? (cf. 13-28). È una denuncia e una provocazione per tutti noi. Dovremmo cercare di incarnare nella teologia spirituale queste intuizioni di Chiara. Sarà importantissimo condividere le nostre idee. Così, vivendo la spiritualità di comunione, non perderemo nulla, ci arricchiremo del pensiero degli altri e la nostra vita accademica e la nostra riflessione teologica crescerà.
Santiago Gonzales Silva, cfm, docente al Claretianum: Parlare di spiritualità “collettiva” mi crea disagio, perché “collettivo” mi suona spersonalizzante ed è un rischio moderno che possiamo assumere inconsapevolmente. Quando si dice che la persona singola è frutto di… mi sembra riduttivo. Io penso che la persona singola non sia mai frutto del collettivo né del gruppo: c’è una originalità nei confronti di Dio stesso. Quando parliamo così, rischiamo di contrapporre l’individuo e il collettivo. Invece tra persona e comunità non c’è contrapposizione: le Tre divine Persone unite rimangono distinte.
Questa impostazione ci libererebbe da qualche possibile errore, come il protagonismo umano. Dovremmo recuperare il fatto che nella vita spirituale non dipende tutto da noi, né dalla nostra buona volontà. Sembra che noi siamo buoni, perché lo decidiamo. Invece Dio non ha mai lasciato i santi in questo errore individualistico, contrapposto alla comunione.
Forse, restando al testo di Chiara Lubich, la questione sarebbe il riconoscimento in lei del primato dell’iniziativa divina, cercando di approfondire l’esperienza dello Spirito che lei ha avuto. Il problema per noi sarebbe soltanto come esprimere questa esperienza.
Eva Carlotta Rava, docente all’Università Pontificia Lateranense: Pensavo alla realtà della Trinità. Forse l’impostazione da dare alla teologia spirituale dovrebbe partire dalla considerazione che la vita della Chiesa è una realtà che si sviluppa attraverso i secoli. Tutto ciò che la Chiesa ha vissuto, mette in luce aspetti diversi che sono tutti condensati nella realtà trinitaria, ma che l’uomo comprende lentamente. Anche a me non piace “collettivo”, avrei preferito “comunitaria”, perché la Trinità è comunione di persone. Comunque ci intendiamo al di là dei termini.
Questa spiritualità di comunione ha la possibilità, ed è una riposta ai nostri tempi, di integrare tante forme di vita spirituale che ci sono e ci saranno nella vita della Chiesa. Sempre però alla luce di questa visione che nella Trinità non si procede per opposizione, ma per integrazione, per così dire. Parlare di una spiritualità comunitaria, fondata sull’amore, vuol dire partire dalla consapevolezza che l’amore dà identità. Le persone oggi non sanno chi sono, perché non sono state amate. L’amore conferisce identità, crea ordine nei rapporti. Nella Trinità, il Padre è Padre, perché c’è un Figlio. E il Figlio è Figlio, perché c’è un Padre.
La spiritualità di comunione è un grande dono, perché permette a ciascuno di avere la propria identità e, senza perderla, di arricchire l’organismo della Chiesa, il corpo di Cristo. Che senso hanno tutte queste tensioni nella Chiesa? Se vivessimo la carità trinitaria, potremmo vedere queste diversità come un dono e che nessuno toglie niente all’altro. Anzi gli permette di essere quello che è. La realtà trinitaria illumina tutta la nostra esistenza, perché può essere applicato a tutti i livelli (carismi, compiti concreti, diversità di personalità). Ma è l’unità, fondata sull’amore, che permette l’identità.
François-Marie Lethel: Sono contento delle parole del professor Silva. Chiara ha svolto il suo tema con un intento pedagogico. Non bisogna formalizzare troppo la distinzione, che potrebbe diventare contrapposizione, tra una “spiritualità individuale” e una “spiritualità comunitaria”, soprattutto quando si tratta della spiritualità dei santi, non tanto di quella dei trattati. Così, sempre a riguardo dei santi, occorre stare attenti alla distinzione tra “mistica soggettiva” e “mistica oggettiva”. Dove c’è la santità, in qualche modo sono presenti tutti gli aspetti, perché la santità è la pienezza della carità che non può essere, quindi, amore di Dio senza essere amore del fratello.
Penso a santa Teresina, carmelitana, con una spiritualità personalissima, nella quale si vede che la persona diventa Chiesa: “nel cuore della Chiesa io sarò tutto, perché sarò l’amore”. Si potrebbe dire che la persona diventa comunità. Anche nella Imitazione di Cristo, come nei Padri del deserto, certe espressioni, prese fuori contesto, sembrano esagerate. In questa linea, anche Chiara si inserisce nella sinfonia dei santi, con un aspetto profondamente tradizionale e proponendo nuove dimensioni.
Bruno Moriconi: È una cosa da pensare, perché anche a me non piace il termine “collettivo”. Però Chiara l’ha usato e l’ha usato davanti ad un’assemblea composta di Vescovi (il suo tema ascoltato qui era rivolto a loro). Il suo termine è “unità”, spiritualità “dell’unità”, “di comunione”. Però ha usato anche il termine “collettivo” e non lo liquiderei troppo facilmente. Da parte nostra ci possono essere delle interpretazioni sbagliate.
Forse Chiara vuol dire un’altra cosa. Chiara sa cos’è la santità individuale, sa che per diventare santi bisogna morire, sacrificarsi, che non ci si santifica collettivamente, non si santifica una comunità. Forse Chiara vuole sottolineare la missione che è per la collettività. È una ipotesi. Sicuramente, penso, per sottolineare che non ci si santifica se non dentro un mondo reale, dentro la collettività.
Quando ho meditato “Guardare tutti i fiori”, mi sono chiesto quale fosse in una parola il messaggio e ho scritto: ottimismo. L’ottimismo di Gesù, di Dio che continua ad avere fiducia in noi, nonostante i nostri disastri, nonostante la storia della salvezza sia tutta piena delle sue sconfitte.
Chiara è una donna, toccata da Dio, più grande di se stessa. Negli ultimi tempi anche Chiara ha sperimentato la durezza della “differenza” tra sé e la sua missione. In quanto mandata da Dio ai nostri giorni, lei ci insegna che Gesù ha guardato tutti gli uomini con ottimismo, con speranza, a partire da quelli più brutti, più sporchi. Chiara ha capito che, per diventare santa, non doveva fare l’asceta, pregando per i fratelli, ma amando concretamente.
Michel Vandeleene: Sono contento delle parole di Silva. Ci dicono che dobbiamo andare avanti in punta di piedi. Dio ha dato il carisma a Chiara. E noi, andando in fretta, potremmo andare fuori strada, mescolarlo con interpretazioni nostre che non rispecchiano il suo pensiero. Forse ci vuole un “collettivo”, un Gesù in mezzo a tanti, per avere l’equilibrio. Si potrebbe dire spiritualità “pericoretica”, oppure “trinitaria”. Forse a Chiara piace di più il termine “collettivo”, perché esprime l’idea dell’unità, dell’essere tutti una sola persona in Cristo, della persona di Cristo nel quale siamo, ma si dovrebbe verificare.
Fabio Ciardi: Quando Chiara definisce la sua spiritualità, la definisce “dell’unità”. C’è una questione terminologica e una di fondo. A livello terminologico, penso che l’uso di questa parola, “collettivo”, sia anche provocatorio. All’inizio i focolarini erano accusati di essere comunisti, perché parlavano di “unità”, che tra l’altro era proprio il titolo del giornale del Partito comunista italiano, così come quando parlavano della Parola di vita venivano presi per protestanti. Penso che l’uso del termine collettivo vuole essere provocatorio, piuttosto che oggettivo. “Collettivo” vuole aprire ad un’altra dimensione della spiritualità. Un linguaggio può servire a dare uno scossone, a suscitare la domanda su quel qualcosa di nuovo che sta sotto. Forse non è l’espressione più adeguata, e Chiara stessa la modula con altre espressioni, ma indica una novità.
A livello di contenuti, se facciamo una vera teologia trinitaria, in essa ci ritroviamo tutti. Il Padre è Padre in relazione al Figlio, quindi la “personalità” è data anche dalla relazione. Occorre distinguere tra individuo e persona. L’individuo è l’essere in sé, la persona è l’essere in relazione. L’individuo ha la vocazione a diventare persona aprendosi all’altro, a realizzarsi nel rapporto. Io sono me stesso in me stesso, sono individuo prima che essere persona, creato da Dio. Ma Dio mi ha creato con una valenza “collettiva”, di comunione, di rapporto. E io realizzo me stesso nel rapporto con Dio e nel rapporto con il fratello.
Come diceva Gaitán, non possiamo adagiarci sul già detto. Se lo Spirito crea sempre cose nuove, bisogna che cerchiamo anche un linguaggio nuovo, adeguato alla novità da lui creata. I nostri fondatori hanno usato dei linguaggi nuovi nel loro tempo. Vino nuovo cerca otri nuovi. Il vino lo fa lo Spirito, l’otre lo dobbiamo fare noi. E quindi non sempre siamo adeguati. Per questo il dialogo tra di noi ci aiuta.
Paolo Monaco, sj: Forse in questa ricerca terminologica, può aiutarci una prospettiva più ampia. Chiara, quando parla di “spiritualità”, non si riferisce soltanto alla Chiesa, ma parla a tutta l’umanità. La nostra ricerca, più che sui termini “di comunione”, “collettivo”, ecc., va orientata sul termine “spiritualità”: cosa intende Chiara quando parla di “spiritualità”? Qual è il suo orizzonte? Non possiamo pensare soltanto alle spiritualità nella Chiesa, alla teologia spirituale, a qualcosa che sta dentro il confine della Chiesa cattolica, del cristianesimo.
Chiara forse non ha una visione così limitata di spiritualità, perché ha come carisma “che tutti siano uno” (cf. Gv 17, 21). Penso che lei usi il termine “spiritualità”, includendo ogni espressione della vita dell’umanità, ecclesiale e sociale. Quel termine ha uno spessore e una profondità che è quella di Gesù, dello Spirito Santo, universale, che prende dentro tutti, ciascuno e tutta l’umanità vista come una sola famiglia, come una in Gesù. Forse non possiamo dare per scontato che abbiamo la stessa comprensione di Chiara del termine “spiritualità”, di sapere cosa lei intenda per “spiritualità”. È una sfida più ampia e profonda, perché va alla radice del carisma che ha la sua fonte in Gesù abbandonato.
Germán Sánchez Griese: L’intervento di Silva è molto importante, proprio in questo momento dopo la partenza di Chiara, nel quale comincia una nuova tappa per l’Opera di Maria. Succede che, una volta morto il fondatore, quando si comincia a far conoscere il carisma oltre i confini del movimento, bisogna spiegare quelle parole che prima si usavano all’interno del movimento stesso. Se Chiara fosse viva, sarebbe facile inviarle una nota e chiederle direttamente cosa volesse dire.
Nel processo di istituzionalizzazione del carisma, occorre approfondire di più il carisma, cioè, conoscere bene l’esperienza dello Spirito fatta da Chiara, in modo tale che diventi per ogni membro del Movimento una esperienza personale. Occorre però anche vivere il carisma, perché vivendo e conoscendo il carisma, lo si potrà trasmettere e si potrà far fronte a queste difficoltà. Occorre approfondire la realtà di Gesù abbandonato che ha fatto scaturire questa esperienza dello Spirito. E continuare a infondere nelle opere apostoliche, nelle primissime opere, questa spiritualità, perché essa si diffonda negli aspetti pratici. Non c’è tra noi Chiara in carne e ossa, ma c’è la sua spiritualità che noi siamo chiamati a vivere.
Angel Carreras, focolarino: Quando si parlò con Chiara del termine “collettivo”, lei disse che lo preferiva rispetto agli altri. E, come diceva Moriconi, questa scelta andrà approfondita. Vivendo la spiritualità dell’unità, ho imparato a rispettare ogni espressione carismatica della Chiesa, senza contrapporre una all’altra. Chiara parla della spiritualità dell’Opera di Maria come una “nuova fioritura” della chioma dell’albero della Chiesa, senza il quale non ci sarebbe l’Opera. Chiara stessa si sente figlia e sorella dei santi, dai quali sentiva di poter imparare qualcosa.
Fabio Ciardi: Come frutto di questo dialogo, soprattutto grazie agli interventi dei Carmelitani, mi verrebbe da ribaltare quello che hai appena detto: è vero che Chiara ha guardato ai santi, ma oggi mi sembra il contrario: mi sembra che i santi oggi guardino Chiara.
In questo senso: san Francesco non è fermo al 1200, santa Teresa non è ferma al 1500, il mio fondatore non è fermo all’800. I santi sono persone vive, sono carismi vivi che continuano a vivere nei discepoli, si rendono “moderni” e attuali in noi loro figli. Essi camminano con il cammino della Chiesa, hanno vissuto il Concilio Vaticano II e si sono arricchiti di dimensioni che al loro tempo essi non avevano, almeno con l’attuale coscienza ecclesiale.
L’Istruzione Mutuae relationes scrive in proposito che il carisma dei fondatori è una esperienza che loro hanno trasmesso ai loro discepoli per essere da questi custodita, ma anche approfondita e sviluppata in sintonia con il Corpo di Cristo sempre in crescita (cf. n. 11).
Durante questo seminario ho l’impressione, di vedere i nostri santi che crescano. Come un albero per crescere ha bisogno della luce, dell’aria…, così i nostri santi, in noi, per crescere hanno bisogno del nuovo clima ecclesiale che c’è. Anche Chiara, con il suo carisma, è un raggio di luce che cade su questi alberi e li fa crescere.
Ho questa impressione oggi, che i nostri fondatori siano grati alle nuove forme carismatiche che ci sono nella Chiesa di oggi, perché ognuna dà il suo contributo alla crescita. L’albero non cambia natura quando cresce, però mette nuovi rami. Mi sembrava di vedere i nostri fondatori, i nostri santi, le nostre spiritualità, che si arricchiscono, che diventano sempre più “cattoliche”, aperte al soffio dello Spirito, disposte a crescere con il Corpo di Cristo in perenne crescita. Ascoltando Chiara mi sembra che santa Teresa si arricchisca del dono di Chiara, che sant’Eugenio de Mazenod si arricchisca del dono di Chiara…
Il testo “Guardare tutti i fiori” l’avevo capito sempre in chiave personale, mai in termini di doni collettivi. Oggi ho avuto una comprensione nuova di questo testo di Chiara: i fiori mi sembravano i carismi. Non guardare il tuo fiore soltanto, certo, il tuo fiore è il più bello che c’è, però, non guardare solo questo fiore. È un esercizio che già faccio. Mi son sempre sentito francescano, gesuita, claretiano… Mi sembra che questo testo abbia una portata ecclesiale, che insegni a tutta la Chiesa a guardare la bellezza delle diverse vocazioni e ad arricchirsi della loro bellezza.
Carmelo Mezzasalma: Cominciare a leggere il discorso dell’unità, significa cominciare a leggerlo a partire dalla straordinaria e profonda esperienza mistica di Chiara. E tutto si può illuminare. Come la mistica teresiana che è tutta fatta per costruire degli apostoli.
Ho letto “Guardare tutti i fiori” alla luce del “Paradiso ‘49”, testo pubblicato su “Nuova Umanità”. Per esempio il rapporto individuo-unità, collettivo, è un problema culturale. Dov’è oggi la persona? Dopo cento anni di psicanalisi abbiamo identificato il nostro sé con il culto dell’io. La persona diventa persona quando scopre di essere figlio di Dio, al di là dei condizionamenti della propria storia. Quando c’è il primato di Dio, le apparenti contrapposizioni si sciolgono. Alla fine del testo sul Paradiso, Chiara dice “andrò per il mondo”: rinunciando al sé, Chiara si è donata veramente agli altri.
Michel Vandeleene: Con questo intervento siamo riportati alla radice del carisma di Chiara in Gesù abbandonato. Entrando in quel mistero del Figlio che perde lì la sua identità e diventa forse pienamente la persona del Verbo, al culmine del suo essere persona, lui che è la radice dell’unità. In lui troveremmo le linee per approfondire tutte le piste che sono emerse oggi.
Mi sembra che questa giornata ha risposto alle nostre aspettative, perché sentiamo che il carisma dell’unità non è per noi, non è monopolio nostro, che dobbiamo darlo perché è un dono di Dio per tutti. Allora per elaborare una dottrina nel campo della teologia spirituale, che dovrebbe nascere da questo carisma, non possiamo contare soltanto sulle nostre competenze, ma anche su quelle di tanti. Oggi si è sentito questo apporto, l’importanza dei contributi di ciascuno.