Bruckner, Sinfonia n. 7 in mi magg. Roma, Accademia Nazionale Santa Cecilia.
Il ritorno di Myunh-Whun Chung alla direzione dei complessi ceciliani, con il noto gesto ampio e scandito, ha riproposto la Sinfonia, forse la migliore, del maestro austriaco. Devoto di Wagner, tanto da scriverne il secondo tempo – il celebre Adagio usato da Visconti nel suo film Senso – con l’animo affannato per la scomparsa del suo idolo musicale, il musicista è tra i massimi rappresentanti del tardo sinfonismo europeo. «Com’è enfatico», commentava qualcuno, stanco della lunghezza della sinfonia, leggendo anche nel mio pensiero.
Mi sbagliavo. L’Allegro moderato iniziale, sul tremolo in pianissimo dei violini – scendono come da un cielo lontano – su cui si alza il tema pregnante di viole e violoncelli, commentato poi dai legni, porta in sé una serenità invidiabile. Bruckner compone a blocchi, come parti di un polittico, una “macchina sonora” di colori impastati: la sinfonia dà l’impressione di un cumulo di sensazioni che esplodono dalla mente e dal cuore del Maestro che poi le ordina in pannelli per frenarne l’impeto. Questo musicista “di periferia”, quest’organista cristiano possedeva un’interiorità ricchissima, il che spiega la vastità dei suoi lavori. Aveva troppe cose da dire e poco tempo da vivere (la sinfonia la compose a 60 anni, morì a 72).
Come un Bach tardoromantico, evoca nell’Adagio una tristezza immensa di fronte alla morte, per risollevarsi, con l’intervento delle “tube wagneriane”, in una catarsi finale e chiudere nel Finale mosso, ma non troppo veloce: che è certezza dell’immortalità, pur fra le oscurità del cuore umano. Solenne come un corale, densa di un “ripieno” organistico svolto dall’immensa orchestra, la musica di Bruckner prende, tormenta, esalta e alla fine conquista. C’è tutto, qui dentro, tutta la vita. Merito pure di Chung e d’una orchestra mobile, nel velluto degli archi gravi così pacificante.
Si consigliano le interpretazioni di Furtwängler, Celibidache, Giulini, Böhm, Karajan: diverse tra loro, ma ciascuna legittima.
Haydn, Le ultime sette parole di Cristo in croce. Roma, Teatro Palladium. Un attore-scrittore talentuoso come Giovanni Scifoni, voce recitante con commenti che spaziano da Bergman, al barocco a Dostoevskji, ha accompagnato il lavoro haydniano, eseguito da Romatreorchestra. Performance brillante, con qualche eccesso attoriale, interpretazione orchestrale un po’ routinière, direzione precisa di Francesco Lanzillotta, hanno riofferto il mondo spirituale del maestro austriaco ad un pubblico attento, nonostante la sede forse non ottimale.