I templi di File salvati dalle acque
Si pronuncia proprio “file” e non fail dal termine inglese che sta a indicare archivio o schedario, non avendo nulla a che fare con l’informatica. “File” viene infatti da Philae, che nella forma greco-latina significa amicizia: nome dell’isolotto sul Nilo col magnifico complesso templare voluto dai faraoni nel tratto a sud della prima cataratta e divenuto punto d’incontro tra vari popoli, quasi una zona franca al di fuori dei conflitti che potevano turbare i territori confinanti. Il suo nome in lingua egizia era invece “L’isola del tempo”.
Secondo la tradizione era sepolto lì nei pressi Osiride, sposo di Iside: entrambe divinità implicate nel rinnovamento della natura e nella fertilità della terra, in relazione con le periodiche piene del Nilo. Sacra dunque sia per gli egizi che per i nubiani, per la sua posizione strategica File ospitò anche una guarnigione militare e fu importante scalo commerciale fra l’Egitto e la Nubia. Di questo sito celebrato dall’antichità classica e ora patrimonio Unesco parla diffusamente il mensile Archeo di ottobre.
Se i viaggiatori europei dell’Ottocento erano soggiogati dall’imponenza delle piramidi, al cospetto di File e dei suoi templi quasi intatti specchiantisi nel Nilo tra il verde dei palmizi, in un paesaggio roccioso di selvaggia desolazione, rimanevano conquistati dalla bellezza: in specie quella del santuario di Iside, il più importante dedicato alla dea in Egitto, e del cosiddetto “Chiosco di Traiano” sulle cui funzioni si è ancora incerti (luogo di sosta per la barca sacra della dea durante le processioni in suo onore?).
Ultimo luogo di culto ad essere chiuso nel 535 d. C., ben oltre i decreti di Teodosio, l’imperatore che nel IV secolo aveva messo al bando il paganesimo, File rischiava però di scomparire. Nel 1902 la diga di Assuan, inaugurata a valle dell’isola, aveva infatti creato un lago che l’aveva parzialmente sommersa insieme al suo complesso monumentale, sicché i turisti che volevano visitarlo dovevano avventurarsi in barca fra le colonne emergenti dall’acqua.
Nel 1954 gli allarmi degli archeologi divennero più pressanti: ad Assuan doveva nascere una nuova diga che, creando il grande lago Nasser, avrebbe definitivamente sommerso File. Cinque anni dopo l’Egitto e il Sudan chiedevano aiuto all’Unesco per il salvataggio dei monumenti nubiani e il l8 marzo 1960 l’allora direttore generale, Vittorino Veronese, lanciava un appello alle nazioni per un impegno collettivo.
Molti i Paesi che risposero, primo fra tutti l’Italia. In una corsa contro il tempo e in collaborazione con il Ministero della Cultura della Repubblica Araba d’Egitto, l’Unesco creò dei comitati di cui facevano parte archeologi, paesaggisti e tecnici. L’impresa colossale, cui presero parte circa quaranta missioni archeologiche di varie nazioni, salvò ventidue complessi monumentali, smontati e ricostruiti dove le acque non sarebbero arrivate; altri vennero donati dalla Repubblica Araba d’Egitto ai Paesi che più si erano attivati, come il tempio rupestre di Ellesiya attribuito all’Italia ed ora nel Museo Egizio di Torino.
I salvataggi più clamorosi riguardarono i templi di Abu Simbel e di File. I primi, scavati e scolpiti nella roccia, dovettero essere tagliati in enormi blocchi di circa 30 tonnellate ciascuno e ricomposti 60 metri più in alto: un’operazione geniale nella quale sfoggiarono la loro esperienza secolare i tagliatori di marmo delle cave di Carrara.
Quanto a File, si decise di smontare i principali monumenti e rimontarli su un’altra isoletta del Nilo, quella di Agilkia, più a nord, dopo averla spianata e modellata con l’esplosivo. Nel 1974 gli inizi dei lavori con una serie di meticolosi rilievi topografici. Una diga artificiale provvisoria attorno all’isola e l’uso di pompe permisero di effettuare i lavori relativamente all’asciutto. Alcuni monumenti rimasti fuori della diga furono smontati da sommozzatori. Anche in questo caso ebbero un ruolo di primo piano gli specialisti e i tecnici italiani.
Dopo tre anni impegnati nella ricostruzione, la nuova File veniva inaugurata il 10 marzo 1980, completando la campagna Unesco per il salvataggio dei monumenti della Nubia. Mancava purtroppo uno dei due obelischi alti sedici metri che ornavano l’ingresso del Primo Pilone, trasportato in Inghilterra già nel 1818.
Oggi i turisti che sbarcano su questo gioiello incastonato nelle acque del lago Nasser e nel circostante paesaggio desertico rimangono incantati dalle forme solenni ed eleganti del santuario principale costruito in età tolemaica, dal suo cortile porticato col Mammisi o “casa della nascita” del dio Horus da Iside, dalla Via processionale colonnata, dai tempietti di Nefer e di Hator, dal padiglione di Nectanebo; monumenti a cui si aggiungono quelli di età romana come il Portico e la Cappella di Augusto e il Chiosco di Adriano perfettamente conservato nella struttura e nelle decorazioni: tutti in calcare dorato, arricchito un tempo da smaglianti colori ora quasi del tutto cancellati dagli anni d’innalzamento delle acque del Nilo.
Un tempo interdetta ai profani, nel II secolo a. C. File divenne uno dei più importanti luoghi di pellegrinaggio dell’antico Egitto, tanto che i sacerdoti dovettero appellarsi al sovrano Tolomeo VIII per regolamentare l’afflusso di devoti. Ad ascoltare le guide locali che, incise su pareti e colonne, ne illustrano le espressioni nei più vari idiomi del Mediterraneo, ci si rende conto di quale crocevia rappresentasse. Come in questi esempi di lode e ringraziamento a Iside, dea materna e soccorritrice: «Eccoci arrivati all’isola che è al confine dell’Egitto, splendida, santa, di Iside»; «Sono arrivato in Egitto, cantando trionfante per aver attraversato il deserto grazie all’aiuto di Iside, che ha ascoltato la nostra preghiera e ci ha condotti in salvo in Egitto».
File non si spopolò con la partenza degli ultimi sacerdoti egizi. In epoca cristiana, alcune strutture furono trasformate in chiese, i simboli della dea sostituiti da croci e molti i bassorilievi mutilati. Molti anche quelli finiti di danneggiare quando nel VII secolo subentrarono gli arabi iconoclasti. Da allora, per lunghi secoli, uniche ospiti dell’abbandonata File rimasero le ibis sacre a far risuonare nel silenzio i loro lamentosi “caok caok”.