Tempi lunghi per la pace

Li abbiamo visti sfilare in massa, per le strade delle città della Birmania, o meglio del Myanmar, nome introdotto per tener conto delle etnie non birmane di un Paese grande come Francia e Italia messe assieme. Li abbiamo visti a piedi nudi, armati di quella non violenza che da millenni informa la loro filosofia di vita. Scrive Aung San Suu Kyi, Premio Nobel per la pace: La dimensione spirituale diventa importante in una lotta in cui convinzione profonda e impegno mentale sono le armi principali contro la repressione armata. Li abbiamo visti rischiare la vita, e abbiamo voluto manifestare la nostra solidarietà con una camicia, una cravatta, un foulard rossi. Li abbiamo visti, i rossi monaci buddhisti, comprati dal regime in mille modi negli anni passati, ma ora a fianco e davanti a chi soffre. Ora l’esercito ha sparato e ucciso, e ha ripreso in mano le città, ha bloccato l’accesso e l’uscita dai monasteri, addirittura chiudendone sei o sette, i più implicati nelle proteste come Mogaung e Ngwe Kyaryan. Pare così che la dittatura militare abbia vinto di nuovo, cedendo solo su alcuni dettagli, come l’incontro di Aung San Suu Kyi con l’inviato Onu Gambari. Ma qualcosa invece è cambiato. E si spera che la protesta possa portare, a termine, frutti duraturi, auspicando che la superpotenza cinese giochi un ruolo decisivo: l’Asean – organizzazione dei Paesi del Sud-Est asiatico – ha bisogno di farsi una credibilità democratica, cosicché Myanmar è sottoposta a una pressione non indifferente dai suoi vicini. I tempi della libertà possono essere molto rapidi, ma anche molto lunghi. Quelli della non violenza sono necessariamente lunghi. Ma possono portare a una libertà forse meno fulgida, meno immediata, ma più radicata nella mentalità della gente.

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