Tempi duri per le cure palliative

Cambio di strategia dei sostenitori della legalizzazione dell’eutanasia e del suicidio assistito.

Dopo mesi di pressione mediatica quasi quotidiana, da alcuni mesi si parla meno di eutanasia (forse anche per il cambio di prospettiva determinato dal Covid), ma è possibile che nei prossimi tempi ci siano accelerazioni legislative, anticipate da alcune “sentenze creative”, scavalcando i dibattiti e la stessa opinione pubblica. È quanto avvenuto di recente in Portogallo (legalizzazione dell’eutanasia) e in Spagna (approvazione alla Camera e dibattito in Senato), dove a molti osservatori è sembrato stridente il contrasto fra la “lotta per la vita” di pazienti, medici e infermieri nella pandemia e la svolta rapida dei Parlamenti verso una “legge per la morte medicalmente assistita”.

Non quando, ma dove, come, con chi
In questo contesto, ho apprezzato il documento della Secpav (Società spagnola di cure palliative) che affronta il dibattito sull’eutanasia affermando un concetto apparentemente semplice, ma essenziale: dobbiamo spostare il tema della dignità del morire dal “quando” al “come”, al “dove”, al “con chi”. Dalla discussione sul presunto diritto a decidere “quando” morire (con un interruttore vita-morte, la puntura letale che “elimina” la persona sofferente), alla libertà di poter decidere “come” percorrere l’ultimo pezzo di strada (senza accanimento terapeutico, ricevendo cure proporzionate, seguiti da équipe di cure palliative formate e disponibili su tutto il territorio), “dove” concludere i propri giorni (possibilmente non in ospedale o in terapia intensiva, ma a casa propria, oppure in hospice), “con chi” condividere i giorni e le ore decisivi dell’intera vita (da soli o in presenza dei propri cari, degli amici, della comunità). Dice ancora la Secpav in un intervento recente: chi vuole la dignità del fine vita dovrebbe lavorare per garantire le cure palliative, non abbiamo bisogno di eutanasia.

Scenari
In questa prospettiva prendono particolare significato alcuni documenti ecclesiali (tra cui due della Cei: Una presenza per una speranza affidabile: l’identità dell’hospice cattolico e di ispirazione cristiana e Alla sera della vita) e il documento Samaritanus Bonus della Congregazione per la Dottrina della fede. Anticipano scenari, sempre più verosimili anche in Italia, nei quali gli operatori e le strutture cattoliche si troveranno di fronte a dure questioni morali. È quindi necessario fin d’ora rivendicare il diritto all’obiezione di coscienza.

Sguardi di luce
Ancora una volta le cure palliative si trovano in mezzo a venti tempestosi. Da una parte, i movimenti eutanasici spingono verso le “cure palliative integrali”: in pratica, se non si riesce a controllare la sofferenza, bisognerebbe concludere le cure palliative con l’atto eutanasico, cioè la morte assistita. Chi invece si rifà ai valori originali delle cure palliative (non abbreviare né allungare il processo del morire nel suo naturale decorso) viene accusato di essere legato a un concetto troppo “cattolico” di sacralità della vita.
Dall’altra parte, nei documenti cattolici citati si percepisce ancora una certa diffidenza nei confronti delle “cure di fine vita”, come se fosse necessario definire un modo “cattolico” di accompagnare in hospice o nei servizi domiciliari. In realtà l’accompagnamento nell’ultimo tratto della vita è fatto di sguardi di luce e condivisione, che non hanno bisogno di differenziarsi come “cattolici” e spesso restano nel segreto. Sguardi che si possono trasformare in sguardi di resurrezione (talora condivisi in momenti di profonda comunione tra colleghi credenti e non credenti), capaci di illuminare silenziosamente le più grandi sofferenze.

Valori e radici
È fondamentale che le cure palliative, in questo particolare periodo, trovino la forza di rimanere fedeli a sé stesse, ai propri valori di laicità universale e alle proprie radici di forte spiritualità. Cicely Saunders, nel progetto di formazione del primo hospice, aveva accarezzato l’idea di una comunità religiosa che vivesse all’interno, ma poi si era resa conto che il requisito fondamentale per lavorare in hospice non è “essere tutti credenti”, ma “essere persone capaci di amare”.
Papa Francesco, nel messaggio per la Giornata mondiale del malato 2021, ringrazia la «schiera silenziosa di uomini e donne che hanno scelto di guardare quei volti, facendosi carico delle ferite di pazienti che sentivano prossimi in virtù della comune appartenenza alla famiglia umana».
Le cure palliative, quindi, devono affermare con forza la propria identità, laica e “per tutti”, che non ha nulla a che vedere con eutanasia e suicidio assistito: le cure palliative sono “altro”. Mi auguro che sappiano affermarlo senza esitazione anche in Italia.

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