Tempi di guerra, speranze di pace
La guerra in Iraq è ufficialmente finita, ma la pace è ancora lontana dall’essere raggiunta. E intanto non si contano le pubblicazioni di vario genere e qualità apparse prima, durante e dopo il conflitto per soddisfare la richiesta di un pubblico le cui conoscenze sull’Iraq si limitano, spesso, a qualche nozione scolastica sul suo glorioso passato o all’immagine di un paese portato alla rovina da una dittatura ferrea e crudele. Si tratta, non di rado, di testi costruiti in fretta e furia, per placare l’ansia del lettore curioso di sapere quale forma prenderà il nuovo Iraq, e il cui valore rimane dubbio. Quale, allora, il significato e l’apporto di questo Tempi di guerra, edito da Città Nuova a distanza di alcuni mesi da quei fatti ormai divenuti storia? Lo si può intuire già solo scoprendone la genesi. Nel maggio scorso, all’indomani della liberazione dell’Iraq, l’autore – il giornalista e scrittore Michele Zanzucchi, caporedattore di Città nuova – s’immergeva nella capitale martoriata, nei mercati, negli ospedali da campo…, per conoscere dalla voce diretta di chi quella guerra aveva sofferto sulla propria pelle non solo la realtà dei fatti, ma possibilmente quale futuro si poteva intravedere. Nel libro-reportage che ne è risultato, l’autore lascia la parola soprattutto agli intervistati: personalità religiose cristiane come mons. Salomone Warduni, allora vicario del patriarca di Babilonia dei Caldei, mons. Fernando Filoni, nunzio apostolico a Baghdad e Amman, e il vescovo latino della capitale irachena mons Jean Sleiman; o musulmane, come l’imam Alsaid Aiad Jamalalldin, noto teologo islamico che era stato esiliato dal rais. Ma anche gente del popolo, nonché diversi amici dei Focolari che affiancandosi, in quella terra, ad altri cristiani che cercano di testimoniare ciò in cui credono, durante le operazioni di guerra hanno fatto ogni sforzo per tenersi uniti ed essere di sostegno, oltre che a sé stessi, anche ad altri. Pagina dopo pagina, per pennellate pennellate successive – è il metodo seguito dall’autore per altri suoi reportage -, si delinea un quadro della situazione assai completo e con squarci inediti: il quadro di un paese ricco di tanti valori, come l’ospitalità, composto da tre etnie – i curdi e gli arabi sciiti e sunniti di religione musulmana -, in mezzo ai quali vive una minoranza cristiana. In particolare viene indagato l’apporto che il messaggio di Cristo ha dato a questa nazione che è stata un esempio di tolleranza fra religioni diverse e potrebbe, una volta raggiunta l’auspicata autonomia e stabilità politica, continuare ad essere un modello in tal senso. Quello narrato è un vivo mosaico di testimonianze sugli orrori e i patimenti sofferti, cui s’intrecciano gesti di solidarietà e voci di speranza, che la violenza delle armi non è riuscita a spazzar via. Ed è pure un susseguirsi di incontri indimenticabili con uomini di cui l’autore registra, commosso, il piccologrande eroismo. Come meravigliarsi se, giunto al termine del suo “pellegrinaggio”, porta con sé la ricchezza di questi incontri con persone, più che il ricordo dei palazzi bombardati, delle lunghe colonne dei blindati americani, dei ritratti danneggiati del rais? “Ecco – conclude -, se posso dire così, il soggiorno a Baghdad è risultato una condivisione particolare con quel “piccolo gregge” che sono i cristiani della capitale irachena: non ho alloggiato al Palestine o allo Sheraton, ma in una casa modesta in una periferia qualsiasi della città; non ho parlato tanto coi potenti, quanto con la gente del popolo; non ho cercato lo scoop, ma le tracce di verità presenti nel cuore della gente. E torno ricco di questi volti provati ma belli. Della bellezza che viene dall’amore”.